La festa della Repubblica
(di Felice Celato)
Eccoci qua, quasi alla metà dell’ annus horribilis, a “festeggiare” la nostra cara repubblica, subito dopo aver festeggiato (noi cattolici) l’eterna e potente Pentecoste. [Avrei voluto ricordarcela vicendevolmente, questa festa natale della Chiesa e del terzo e definitivo tempo della Rivelazione (quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, Gv, 16, 13); ma non avrei trovato parole migliori – soprattutto quest’anno – di quelle dell’inno che si recita a messa (Veni Sancte Spiritus et emitte coelitus lucis tuae radium…), che però, quasi certamente, tutti sappiamo a memoria, in italiano o in latino.]
Dunque, fra strisce tricolori e retoriche più o meno bolse, eccoci a celebrare – sperabilmente in maniera civile – quel lontano 2 giugno del 1946, quando l’89% dei cittadini Italiani che ne avevano diritto, votò per scegliere la “forma giuridica” dello stato e, con esigua maggioranza, scelse in favore della forma repubblicana, liquidando la putrefatta monarchia che aveva affidato, per più di vent’anni, le sorti del paese all’uomo forte del tempo, anche assumendone in proprio le nefaste conseguenze.
Difficile negare che questa festa meriti la primazia che gli è riservata fra le solennità civili del nostro paese; anzi, sarebbe addirittura sciocco farlo, considerati i precedenti storici ed i frutti che lo stato repubblicano ha prodotto per tanti anni nel nostro paese. Eppure, mi pare, quest’anno, la celebrazione della Festa della Repubblica si tinge di un senso affannato, forse ansioso, stanco o depresso. Non certo – credo e spero – perché siano venuti meno i valori repubblicani che la incarnano ma perché – così, sempre, mi pare – si è appannato il nesso di concordia (tornerò fra poco sul termine) che, esiguo al momento della scelta (come abbiamo già ricordato), si era però nel tempo irrobustito attorno ai valori repubblicani, pur in mezzo a tensioni e appassionati dibattiti (si pensi solo alle divisioni politiche del periodo della guerra fredda), a mano a mano che si veniva facendo robusto il “successo” del nostro paese; un relativo ma innegabile successo economico, sociale e sociologico ed anche politico, se l’Italia era entrata a far parte, da fondatore, di quell’ambizioso progetto di pace e di progresso che è stato l’Unione Europea (e che è tuttora l’architrave della nostra speranza civile e l’orizzonte del nostro futuro).
Si è però via via appannato, dicevo, il nesso di concordia o, per meglio dire, quella forma di coesione, di collettiva comunanza macro-valoriale, che dà il senso ad una collettività; hanno preso campo la tentazione all’inerte decostruire, la società molecolare o addirittura la società mucillagine, un incedere sciancato del paese, il rancore di una società dissociativa, di una moltitudine sciapa e infelice, che ha paura della dialettica e che fa fatica a dominare i propri istinti verso la divaricazione, anche radicale (si pensi solo al nostro divisivo senso di cittadinanza europea, sul quale si puntellano gli scardinatori).
Se avessi avuto la pazienza di ricercare i “tempi” di queste parole rubate al Censis, si sarebbe visto chiaramente che esse precedono di qualche anno l’incubo recente della pandemia. E dunque nessuna “colpa” (aggiuntiva rispetto agli oltre trenta mila morti!) può essere "addebitata" al Coronavirus per queste involuzioni della nostra convivenza civile; tuttavia mi pare che questo tempo aggiunga anche un’inquietudine nuova: da un lato la solida percezione (credo a prescindere dalle nostre opinioni politiche, se non fanatizzate) dell’inusitata sproporzione – non nuova ma ora aggravata dalla inesplorata dimensione e dalla profondità delle azioni necessarie – fra le risorse (culturali, politiche e sociologiche, prima che semplicemente finanziarie) di cui disponiamo e la gravità e la complessità dei problemi che dovremo affrontare; dall’altro una nuova e più intensa paura (non solo sanitaria ma, più profondamente, forse esistenziale) che può trasformare l’ansia in agitazione, anche socio-motoria.
Come ogni festa, anche quella della repubblica, non è destinata a medicare degenerazioni a lungo trascinate; e non basta un giorno di misurata festa per curare un malessere lungo, specie se a questo si è aggiunta la paura. Eppure la Festa della Repubblica va celebrata, con fiducia forse antica, con misura di parole, con trepidazione inevitabile ma anche con ferma memoria di radici e passione di orizzonte.
Roma 1° giugno 2020
Nessun commento:
Posta un commento