Questi pensieri sono, appunto,
stagionati, nel senso che sono il frutto di riflessioni non recenti; li allineo
qui, magari solo per i lettori credenti, come piccolo contributo alla
nostra amicizia che trova, in queste conversazioni asincrone ormai settennali
(ci avviamo infatti al settimo “compleanno” di questo blog), il conforto sublime del numero ristretto, testimone
dell’apprezzata assenza della moltitudine (copyright: Mallarmé).
Riportare, pregare
(di
Felice Celato)
Il verbo riportare/riportarsi, nell’italiano moderno, ha molti significati:
dal portare di nuovo, portare indietro, restituire (al legittimo proprietario);
dal riferire, far risalire (all’autorità di qualcuno), trasportarsi idealmente,
richiamarsi (come gli antichi filosofi si riportavano a Platone o ad
Aristotele); fino al riferirsi, rispondere a qualcuno dei propri comportamenti
(si dice: il capo-contabile riporta al direttore finanziario, oppure il
colonnello al generale, etc). Un verbo vasto, dunque, che risuona di un
significato traslativo e restitutivo, anche in senso attributivo, come fosse un
riconoscere un’alterità autorevole alla quale fanno capo le cose che abbiamo in
uso (e dobbiamo restituire) o le facoltà che esercitiamo per suo conto; un
verbo che presuppone la relazione,
che è ad un tempo – magia delle parole! – il contenuto del riportare e,
soprattutto, il presupposto bilaterale dell’azione del riportare: per riportare
qualcosa a qualcuno occorre anzitutto che si riconosca questo qualcuno, che si
abbia con lui, appunto, una relazione, un legame dialettico.
Per questo il verbo riportare mi pare il più adatto a
sintetizzare il senso della preghiera come lo sono venuto sentendo in anni di
riflessione sul suo senso e sulla natura del rapporto che instauriamo con Dio,
appunto pregando: riportiamo a Lui, cioè rimettiamo nelle Sue mani quanto
abbiamo ricevuto e quanto abbiamo fatto o non abbiamo fatto per custodirlo, Gli
riferiamo dei nostri progressi o dei nostri regressi, delle nostre difficoltà,
degli ostacoli davanti ai quali ci siamo fermati, delle cose che necessitano di
un Suo intervento, delle cose che non capiamo, degli errori che abbiamo
commesso, degli abusi che abbiamo compiuto sui beni che ci sono stati affidati.
Rimettiamo tutta nelle Sue mani la nostra umanità, che abbiamo ricevuto dal Suo
soffio e, ripercorrendone i nodi, la riaffidiamo alla Sua misericordia.
Che poi lo facciamo mentre
snoccioliamo il mantra di un rosario
o semplicemente piegando il capo in silenzio davanti al Crocefisso, o mentre
riceviamo la comunione, o ricomponendo nella nostra mente e con nostre parole
le cose che vorremmo dirGli; o anche che lo facciamo interrogandoLo
appassionatamente, come accade quando non capiamo ciò che ci succede; o
semplicemente dicendoGli il nostro amore per quelli che ci ha donato e che
raccomandiamo al Suo sguardo; o la nostra grata memoria di quelli chi ci hanno
messo in vita e nella vita custodito nell’amore; tutto ciò mi pare abbastanza
indifferente, quasi come si tratti di una mera modalità. E’ invece assai
importante che il nostro atteggiamento sia quello del riportare davanti a Lui sulla base di una relazione, relazione che
la Rivelazione ci ha insegnato a considerare filiale e che, perciò, anche
naturalmente, conosciamo (sia come figli che come padri o madri).
Si dirà: una relazione presuppone un
dialogo; possiamo dire che l’Altro ci abbia mai risposto, abbia mai corrisposto
al nostro riportarGli, abbia rotto quello che ci appare il suo eterno silenzio?
Non lo so. Ciascuno può trovare nella
sua esperienza una risposta a questi interrogativi (ma anche a questi altri,
contrapposti: possiamo dire che l’Altro NON ci abbia mai risposto? Che sia sempre
veramente restato IN SILENZIO?).
In ogni caso, vale qui quanto
insegnava J. Ratzinger già cinquanta anni fa (Introduzione al Cristianesimo, prima edizione in tedesco 1968): credere vuol dire aver deciso [è
questa l’opzione fondamentale!] che nel
cuore stesso dell’esistenza umana c’è un punto che non può essere alimentato e
sostenuto da ciò che è visibile e percettibile, ma dove si incontra
l’invisibile, sicché quest’ultimo gli diviene quasi tangibile, rivelandosi come
una necessità inerente alla sua esistenza stessa.
In questa opzione, si radica la
Rivelazione; e la Rivelazione (che è il perimetro della nostra fede di
Cristiani) ci dice di un Dio che ascolta, sempre; e talora risponde.
Roma, 5 aprile 2018
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