venerdì 27 aprile 2018

Un popolo informato

Ricchi di parole e privi di senso
(di Felice Celato)
Da qualche tempo ho sviluppato una convinzione che a molti (a mia moglie per prima) è sembrata una delle mie fisime senili: ci siamo abituati ad ascoltare senza intendere. E così accettiamo con incosciente facilità le parole fatue, i messaggi vacui, le allusioni infondate e i riferimenti ellittici che quotidianamente ci vengono propinati non solo da “politici” ma (quel che è peggio) da “giornalisti” e da altri “comunicatori professionali”; e che alimentano il nostro “patrimonio” di percezioni diffuse, per consolidarle rapidamente  come scontate.
Per questo ho letto con molto piacere, l’altro giorno, sul Corriere della sera, il pungente articolo di Paolo Mieli Il processo (infinito) allo Stato, che opportunamente si focalizza sulla (distruttiva) comunicazione impersonale che tanto spesso si nutre di ammiccanti impersonalismi destinati a tutti coinvolgere senza nessuno nominare (il riferimento di Mieli era alle presunte responsabilità di una immateriale entità come “lo Stato” nelle famose vicende della “trattativa Stato- Mafia”).
Ma, anche senza l’ausilio di questa acuta disamina, tante volte mi è capitato di notare con quanta pigrizia accettiamo un comodo astratto in luogo di un faticoso concreto. Anzi, per passione sperimentale, ho provato spesso quanto sia sacrosantamente provocatorio l’esercizio di obbligare un interlocutore a scendere dal generico allo specifico: l’altro giorno, per esempio, ho fatto innervosire un tassista che mi parlava genericamente dei malanni del paese, sfidandolo a non usare parole vuote: “i politici” quali? “loro” chi? A vantaggio e a scapito di chi, ”loro” si fanno “gli affari loro”? Chi sono i protagonisti del “tutto un magna-magna”? E sapete quale è stata la risposta? “Ma dottò, lei non li legge i giornali?” E alla mia replica: “Ma i giornali parlano quasi sempre come lei!”; la risposta è stata: “Embè se sa! Sinnò je fanno causa!”. E poi, per misteriosa connessione, ha aggiunto: “e noi pagàmo!” (essendo arrivato alla mèta ho evitato di domandare: noi chi? E perché saremmo noi a pagare? Mi sono limitato a non arrotondare la somma da me dovuta).
Se volete, questa è una evidente banalizzazione del tema; e senz’altro avete ragione. Ma provate ad esercitare la volontà ferma di intendere fino in fondo ciò che viene detto (accoppiando, cioè, ad ogni parola il suo significato preciso), su tutto ciò che ascoltiamo alla radio o alla televisione o, ahimè, leggiamo anche sui giornali (lasciamo da parte, qui, quello che dicono i politicanti): credetemi è un esercizio, spesso ed in varia misura, sconvolgente! E – naturalmente, almeno per me – irritante! Non parlo, evidentemente, solo della inestinguibile inimicizia fra la maggior parte dei giornalisti e i numeri (spesso  clamorosamente sbagliati, addirittura per difetto di percezione della “banale” differenza fra milioni e miliardi!); no! qui ho addirittura perso ogni speranza! Mi riferisco, invece, proprio alle parole (e ai loro significati), a quelle (e a quelli) che dovrebbero essere gli strumenti prìncipi del comunicatore; e, molto molto spesso, alla congruità dei concetti enunciati o riferiti con quelle parole, talora – quando sono di buon umore – addirittura esilaranti.
Ora, le persone che più spesso di me sono di buon umore (e penso che siano veramente molte) potrebbero addirittura trarre divertimento da questa babele di sensi, da questi nonsense che – se decontestualizzati – potrebbero fare la fortuna di un buon cabarettista. Ma credo che anche a loro non sfuggirebbe il pericolo civile insito nell’uso di un linguaggio che nulla sa dire, tutto volendo far capire; nel sottrarre verbosamente alla parole il loro senso, in modo da restare ricchi di parole e privi di senso; nell’attingimento, a piene mani, al convenzionalmente percepito o al politicamente (creduto) corretto, per restituire percezioni convenzionali e “pensierini” politicamente corretti; e nell’abuso del luogo comune, accoppiato – spesso – ad un sentenzioso moralismo convenzionale, facile da comunicare e, d’altra parte, facile da introitare.
Qui siamo ben oltre il noto aforisma (non ne ricordo l’autore) che l’informazione si mette nelle teste vuote per mantenerle vuote; qui siamo nel confezionamento di pappe mediatiche sbrindellate, nell’attentato alla comprensione e, come direbbe Pannella, al diritto alla conoscenza. Il tutto, nel migliore dei casi, per insufficienza culturale o vera e propria sciatteria professionale. Se, come diceva Tocqueville, la democrazia è il potere di un popolo informato, con questa qualità del nostro informare in che tipo di democrazia speriamo?
Roma, 27 aprile 2018


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