Come si fa?
(di Felice Celato)
Come
si fa a non essere innamorati dell’uomo? Ci penso sempre mentre cammino per la
città a svelti e grandi passi (beh, svelti e grandi! sempre 0,85 metri a passo
per 100 passi al minuto!), incontrando mille volti avulsi da ogni strutturata
aggregazione fra loro. Come si fa a non cogliere – quando si riesce a
dimenticare le forme di imbarbarimento in cui spesso ci annulliamo nei nostri
rancori collettivi – la dolcezza dei sentimenti più semplici, l’ingenua
fiducia, le speranze, la richiesta di conforto, l’allegra spensieratezza o la
tesa angoscia di cui ciascuno è silenzioso portatore? L’uomo maturo che cammina per strada,
avviandosi pensosamente al lavoro, carico di preoccupazioni e di insicurezze;
la giovane donna che porta i suoi bambini agli asili nido, parlando al
cellulare con la madre; i gruppi di alunni ignari della vita che si scambiano
scherzi o ridenti parodie degli insegnanti; il vecchio che chiede l’elemosina,
anche ringraziandoti per un imbarazzato gesto di mancanza di monete e ti
ringrazia solo per il sorriso che magari gli dedichi; le mature signore che,
sedute ad un tavolo di bar, si scambiano mattutine confidenze, sdegni, lamentele
e conforto ad angosce familiari, attorno all’immancabile cappuccino evocatore
di qualche benessere; il passante di colore che si toglie il cappello passando
davanti ad una edicola della Madonna; la giovane donna che ruba alla fretta
scampoli di conversazione mattutina col ragazzino che tiene per mano; la giovanissima
mamma che copre dal vento il bambolotto umano che porta dai nonni; il vecchio
stanco che osserva da una panchina il mondo che gli passa davanti, magari
pensando ai figli lontani; la colf
filippina che si reca, anche allegra, alla quotidiana fatica e forse alla quotidiana
razione di umiliazioni; i giovani seminaristi di qualche lontano paese africano
che vanno allo studio quotidiano; la signora di Trastevere che cerca su una
bancarella qualche indumento che le dia l’illusione di essere alla moda; lo
spremitore di melograni del Bangladesh venuto in Italia a cercare sopravvivenza;
le monache che lentamente vanno al mercato per la spesa del convento; la
badante che accompagna l’anziana signora alla passeggiatina intorno casa,
magari parlandole come fosse una bambina, mentre pensa a chi ha lasciato in
patria; lo sdentato clochard
improvvisatosi dog-sitter per
sentirsi magari amato dal suo illustre guinzagliato; e anche lo yuppie azzimato che crede di fare un
lavoro importante, del quale per sua fortuna non ancora conosce le asprezze; la
giovane donna che raccoglie in una bottiglietta l’acqua della Madonna del pozzo
per portarla a qualche parente malata; la ragazza che scherza coi passanti
mentre pulisce una vetrina; il pizzaiolo che fuma sull’uscio del negozio prima
di mettere le mani nell’impasto, misurando dalla densità dalle nuvole la quantità
di pizza da infornare; la ragazza americana che fa jogging saltellando al semaforo per fare il pieno di ossido di
carbonio, felice comunque di correre per la città eterna; l’anziano signore che
sul ponte Garibaldi attira i gabbiani con qualche fetta di pane a cassetta, per
regalarsi un po’ di rumorosa compagnia per cominciare bene la mattina; la
signora “tirata” che si sente bella non ostanti i segni del tempo; i netturbini
che fanno una pausa a base di grandi stocchi di pizza; le ragazzine straniere che sciamano allegre
per la città uscendo da qualche bed and
breakfast a buon prezzo; tutta questa umanità che cerca, talora trova o si
illude di trovare per strada, almeno per poco, speranza, conforto o modesto
piacere dalla vita.
Come
si fa, dicevo, a non intenerirsi degli affetti veri, della gioia di vivere, della
volontà di sopravvivere alle difficoltà, della ricerca di reciproco conforto, della
protettiva attenzione o anche solo dell’offerta e della domanda di umanità che
tutti esprimiamo sui volti se solo ci dimentichiamo di quello che possiamo
rivendicare? Quando ci penso, mi pare di
capire perché Dio, che scruta le anime e non pesa le folle, è innamorato delle
sue creature, nonostante tutto.
Roma,
16 marzo 2016
PS:
come sempre, la primavera e la luce mi rendono meno cupo; poi passa, però, non
temete.
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