Noi, nuovi sonnambuli
(di
Felice Celato)
In
un passo di una corposa ed impegnativa lettura che ho in corso ( I sonnambuli – Come l’Europa arrivò alla
Grande guerra, di Christopher Clark, Laterza, 2013) i protagonisti
dell’epoca vengono descritti come sonnambuli,
apparentemente vigili ma non in grado di vedere, tormentati dagli incubi ma
ciechi di fronte alla realtà. Essi filtravano
la realtà mediante narrazioni che erano il prodotto di frammenti di esperienza
che si saldavano a paure, proiezioni psicologiche e interessi mascherati sotto
forma di massime.
Confesso
che questo impietoso ritratto delle classi dirigenti dei vari paesi attori di
quella immane tragedia che fu la prima guerra mondiale mi pare drammaticamente
applicabile al nostro presente; anzi, per certi aspetti, ancora in misura più
preoccupante (anche se sperabilmente meno drammatica): le democrazie del terzo
millennio, infatti, stanno vivendo secondo me una fase nella quale lo spazio e
l’efficacia della delega politica sulla quale a lungo si sono rette, appare contratto e indebolito. La dinamica
dell’informazione e, soprattutto, della formazione delle opinioni ha
raccorciato l’autonomia democratica dei rappresentanti e ne ha appesantito il
respiro fino a renderlo corto, affannoso e continuamente bisognoso di conferme
del consenso dei rappresentati.
Così,
ciò che allora (all’inizio del secolo scorso) poteva dirsi di classi dirigenti
(i sonnambuli di cui parla Clark),
oggi forse a ragione può dirsi proprio di ben più vaste aree di influenza cui
si attribuisce il nome convenzionale di “pubbliche opinioni”; con conseguenze
di particolare intensità dove meno
solida si manifesta la cultura (e la desta
consapevolezza) dei cittadini (penso all’Italia, naturalmente) e, di
conseguenza, più deboli e più rischiosamente rinnovabili le classi dirigenti.
L’occasione
di questa non lieve considerazione mi viene da un fatto Europeo di questi
giorni, al quale i giornali Italiani, presi come sono – del resto
comprensibilmente – a rovistare nelle recenti ulteriori miserie nazionali,
hanno dato poca evidenza : mercoledì si è tenuto in Olanda un referendum sulla ratifica del trattato
di “associazione” fra Ukraina e UE e l’esito è stato negativo, come forse era
facile aspettarsi. Un fatto, se vogliamo, praticamente forse irrilevante (pare
di capire che il referendum non sia
automaticamente vincolante), ma secondo me estremamente significativo; non solo
perché, come dice il WSJ, ammonisce i leaders
Europei ad “educare i propri cittadini agli affari esteri”, ma perché
conferma – se ve ne fosse bisogno – la
consistenza di un trend di
delegittimazione democratica dell’Europa che trova alimento nelle pulsioni più
disparate (questa volta, sembra, la paura di ”un’invasione” di migranti
ukraini), spesso distruttive (“Why
support EU foreign policy if you hate Brussels?” commenta sempre il WSJ,
perché appoggiare la politica estera europea se odi Bruxelles?) e – da noi – molte
volte proprio sollecitate da chi dovrebbe essere appunto classe dirigente (e
non solo atteggiarvisi).
Torno
al libro con cui ho cominciato questo post.
Clark fa notare, di passaggio, di avere scritto la parte finale del suo vasto
saggio proprio nel momento culminante della crisi finanziaria dell’Eurozona,
fra il 2011 e il 2012. E stabilisce una
lancinante analogia fra l’allora e l’oggi: non mancava (allora come oggi) la
conoscenza del rischio catastrofale ma i soggetti politici hanno sfruttato la possibilità di una catastrofe generale come uno
strumento su cui far leva per assicurarsi i propri specifici benefici.
Questa
analogia, non saprei dire fino a che punto fondata, se realmente lo fosse sarebbe oggi ancora più inquietante: mentre la crisi dell’Eurozona non è finita, "in compenso" è
cominciata quella delle frontiere; e io non sono affatto certo che sia chiara a tutti
la portata dei rischi catastrofali che corriamo, anche se qualcuno potrebbe
pensare di trarre effimeri vantaggi da qualche provvisorio sviluppo. Mi viene
in mente uno slogan utilizzato da Amnesty International durante una delle
manifestazioni a sostegno di una (almeno decente) politica della immigrazione: Leaders of Europe, it is not the polls you
should worry about; it’s the history books! (Leaders Europei, non è delle
urne che dovreste preoccuparvi ma dei libri di storia).
Roma,
8 aprile 2016 (molto nuvoloso, come forse si sarà capito)
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