venerdì 8 aprile 2016

Storie

Noi, nuovi sonnambuli
(di Felice Celato)
In un passo di una corposa ed impegnativa lettura che ho in corso ( I sonnambuli – Come l’Europa arrivò alla Grande guerra, di Christopher Clark, Laterza, 2013) i protagonisti dell’epoca vengono descritti come sonnambuli, apparentemente vigili ma non in grado di vedere, tormentati dagli incubi ma ciechi di fronte alla realtà. Essi filtravano la realtà mediante narrazioni che erano il prodotto di frammenti di esperienza che si saldavano a paure, proiezioni psicologiche e interessi mascherati sotto forma di massime.
Confesso che questo impietoso ritratto delle classi dirigenti dei vari paesi attori di quella immane tragedia che fu la prima guerra mondiale mi pare drammaticamente applicabile al nostro presente; anzi, per certi aspetti, ancora in misura più preoccupante (anche se sperabilmente meno drammatica): le democrazie del terzo millennio, infatti, stanno vivendo secondo me una fase nella quale lo spazio e l’efficacia della delega politica sulla quale a lungo si sono rette,  appare contratto e indebolito. La dinamica dell’informazione e, soprattutto, della formazione delle opinioni ha raccorciato l’autonomia democratica dei rappresentanti e ne ha appesantito il respiro fino a renderlo corto, affannoso e continuamente bisognoso di conferme del consenso dei rappresentati.
Così, ciò che allora (all’inizio del secolo scorso) poteva dirsi di classi dirigenti (i sonnambuli di cui parla Clark), oggi forse a ragione può dirsi proprio di ben più vaste aree di influenza cui si attribuisce il nome convenzionale di “pubbliche opinioni”; con conseguenze di particolare intensità  dove meno solida si manifesta la cultura (e la desta consapevolezza) dei cittadini (penso all’Italia, naturalmente) e, di conseguenza, più deboli e più rischiosamente rinnovabili le classi dirigenti.
L’occasione di questa non lieve considerazione mi viene da un fatto Europeo di questi giorni, al quale i giornali Italiani, presi come sono – del resto comprensibilmente – a rovistare nelle recenti ulteriori miserie nazionali, hanno dato poca evidenza : mercoledì si è tenuto in Olanda un referendum sulla ratifica del trattato di “associazione” fra Ukraina e UE e l’esito è stato negativo, come forse era facile aspettarsi. Un fatto, se vogliamo, praticamente forse irrilevante (pare di capire che il referendum non sia automaticamente vincolante), ma secondo me estremamente significativo; non solo perché, come dice il WSJ, ammonisce i leaders Europei ad “educare i propri cittadini agli affari esteri”, ma perché conferma – se ve ne fosse bisogno – la consistenza di un trend di delegittimazione democratica dell’Europa che trova alimento nelle pulsioni più disparate (questa volta, sembra, la paura di ”un’invasione” di migranti ukraini), spesso distruttive (“Why support EU foreign policy if you hate Brussels?” commenta sempre il WSJ, perché appoggiare la politica estera europea se odi Bruxelles?) e – da noi – molte volte proprio sollecitate da chi dovrebbe essere appunto classe dirigente (e non solo atteggiarvisi).
Torno al libro con cui ho cominciato questo post. Clark fa notare, di passaggio, di avere scritto la parte finale del suo vasto saggio proprio nel momento culminante della crisi finanziaria dell’Eurozona, fra il 2011 e il 2012. E  stabilisce una lancinante analogia fra l’allora e l’oggi: non mancava (allora come oggi) la conoscenza del rischio catastrofale ma i soggetti politici hanno sfruttato la possibilità di una catastrofe generale come uno strumento su cui far leva per assicurarsi i propri specifici benefici.
Questa analogia, non saprei dire fino a che punto fondata,  se realmente lo fosse sarebbe oggi ancora più inquietante: mentre la crisi dell’Eurozona non è finita, "in compenso" è cominciata quella delle frontiere; e io non sono affatto certo che sia chiara a tutti la portata dei rischi catastrofali che corriamo, anche se qualcuno potrebbe pensare di trarre effimeri vantaggi da qualche provvisorio sviluppo. Mi viene in mente uno slogan utilizzato da Amnesty International durante una delle manifestazioni a sostegno di una (almeno decente) politica della immigrazione: Leaders of Europe, it is not the polls you should worry about; it’s the history books! (Leaders Europei, non è delle urne che dovreste preoccuparvi ma dei libri di storia).
Roma, 8 aprile 2016 (molto nuvoloso, come forse si sarà capito)


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