venerdì 15 aprile 2016

Cinque anni dopo

Confini/frontiere
(di Felice Celato)
Giusto 5 anni fa [a proposito: il blog compie domani il suo quinto anno di vita! Ad ogni ricorrenza annuale, qualche parola l’ho spesa per dire quanto mi piace passare qualche ora a settimana a riordinare pensieri e impressioni sul mondo che ci  gira dattorno, per scriverne una nota talora da condividere con qualcuno, talaltra solo per il gusto appunto del riordino che si impone quando si scrive o proprio solo per tenere  memoria di ruminazioni, magari solo frutto di intense camminate urbane. L’ho fatto – sapete la mia ossessione per i numeri! – quasi 400 volte (398 post, per l’esattezza) in questi 1827 giorni, quindi una volta ogni 4 o 5 giorni; troppo? Forse. Ma in fondo che male c’è a tentare di tener traccia di ciò che ci passa per la mente, o, talora, per l’anima? Se poi penso che, mediamente, 17 persone al giorno si sono affacciate sul sito in questi cinque anni, magari, alcuni, con l’idea di trovare uno spunto di dialogo, allora penso che proprio male non ho fatto. In fondo, al netto delle banalità che ci assordano, ci parliamo così poco che anche uno spunto di dialogo non può farci che bene. E dunque ben volentieri mi perdono di questa cura che potrebbe apparire una piccola vanità intellettuale]; giusto 5 anni fa, dicevo, scrivendo il post che ha raccolto più visite (quasi 1200 in cinque anni per Confini/ frontiere del 19 aprile 2010) cominciavo così:
Le confuse agitazioni di qualche giorno fa al confine fra l’Italia e la Francia hanno fatto riemergere dal fondo della mia memoria di Europeo un concetto, un’idea, un oggetto (o meglio una serie di segni costituenti “l’oggetto frontiera”) che giaceva seppellito sotto una montagna di abitudini ormai acquisite: avevamo perso, almeno in Europa, il concetto di frontiera, di confine.
E dopo una serie di considerazioni sul concetto di confine in una dimensione esistenziale,  con poca lungimiranza, concludevo così: di fronte a ciò, l’ammassarsi di forze di polizia dall’una e dall’altra parte del confine di Ventimiglia ha assunto ai miei occhi una connotazione bizzarra, una grottesca epifania felliniana di un mondo passato privo di un senso attuale, per fortuna durata poche ore.
Esattamente cinque anni dopo, quasi come se il tempo abbia cominciato a riavvitarsi, quella che avevo considerato una grottesca epifania felliniana si ripete, stavolta dall’altra parte d’Italia (al Brennero), secondo riti un po’ diversi, per certi aspetti anche più rozzi: nemmeno scettici ma mobili soldati, stavolta, ma muri, forse piccoli, è vero, forse solo simbolici, ma sicuramente paradossali (anche nella loro fissità fuori dal tempo). La domanda di confini sembra rinata in quest’Europa confusa e depressa, catatimica e gesticolatoria; rinasce, come se i confini fossero –l'abbiamo già detto (Confini e telecomando, del 2 sett 2015) – il telecomando col quale possiamo rimuovere dal nostro piccolo schermo le immagini spiacevoli del nostro tempo, certi che quod non est in video non est in mundo.
Eppure, rimango della mia opinione, la nuova domanda di confini è una domanda vacua e antistorica (se anche il presente, come ogni presente, tende a farsi storia): non li vogliamo, i confini, per le idee, le merci, il petrolio, il gas, i servizi, i capitali, il turismo, lo sport, le opportunità e persino per la domanda di felicità che ciascuno di noi porta in sé e che si esprime anche nella crescente internazionalizzazione dei nostri giovani; ma li vogliamo per chi fugge dalle guerre e dalle devastazioni e dalle crudeltà che le guerre  si portano dietro; li vogliamo anche noi che nella storia tante volte li abbiamo varcati per sopravvivere; li vogliamo, soprattutto, perché non abbiamo più gli stamina culturali e vitali che ci consentirebbero di produrre quel minimo di ricchezza in più, necessaria per assorbire senza alcun problema quella piccola porzione di umanità che preme disperata alle nostre porte. Li vogliamo perché siamo prigionieri delle nostre paure. E  perché non siamo più capaci di utilizzare le nostre intelligenze per produrre soluzioni; preferiamo fabbricare slogan (semplici, per carità!) e qualche nuova epifania felliniana destinata a rassicurare le pance dei nostri elettorati.
Roma 15 aprile 2016

P.S. Paradossi del nostro tempo: mentre scrivevo questo post mi è arrivato l’invito a sottoscrivere in rete una petizione per chiedere l’abolizione della castrazione dei suinetti senza anestesia; petizione, per carità, anche giusta. Dobbiamo essere solidali coi nostri suinetti.

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