25 aprile
(di
Felice Celato)
Quelli
che hanno fatto il liceo classico ricorderanno senz’altro Eris, l’antica dea
terribile della mitologia greca, secondo alcuni sorella di Ares (dio della
guerra), secondo altri figlia di Nyx (la Notte), forse la più temuta delle dee
perché regina della discordia. Non a caso fu proprio lei che gettò il famoso
pomo (appunto il pomo della discordia)
per suscitare quella contesa sulla bellezza fra Era, Atena ed Afrodite dalla
quale sono nate tante tragiche vicende narrate dalla mitologia e dalla poesia
greca. Virgilio, che nell’Eneide la pone nell’Ade, col nome romano di Discordia
la descrive così: la pazza Discordia coi
capelli di vipere cinti con bende sanguinanti.
Da
questa dea, Eris o Discordia che la si voglia chiamare, nulla di buono derivava
agli dei o agli uomini. Nella mitologia greca e romana.
Ma,
lo sappiamo bene, i miti contengono, in forma di rappresentazione
fantastica, alcune verità profonde sulla realtà e sulla vita degli uomini. Il
teologo gesuita Hugo Rahner, in una sua opera monumentale (Miti greci nell’interpretazione cristiana) addirittura si spinge a
rintracciare in essi alcuni elementi fondanti della simbologia cristiana primitiva. Chi
ne volesse gustare solo un assaggio (come ho fatto io che non sono né mitologo
né teologo) potrebbe leggerne il vasto capitolo che Rahner dedica a Le sirene di Ulisse (EDB, 2015) per
rendersi conto di come quelle rappresentazioni fantastico-poetiche si prestino
perfettamente a letture nella chiave, appunto, del nostro umanesimo cristiano.
Ma lasciamo perdere questa prospettiva che pure richiama alcune indimenticabili
pagine scritte da Benedetto XVI sull’incontro fra cristianesimo e cultura greca
e romana; e veniamo invece, più terra-terra, al contenuto di umana sapienza che
tanto spesso i miti racchiudono. Dunque la Discordia, figlia della Notte, già
nei tempi antichissimi era narrata come un’autentica calamità per gli dei e per
gli uomini; e credo che la storia dell’umanità abbia ricevuto infinite prove
della fondatezza di tale narrazione, prove che spiegano anche perché i Greci
considerassero Eris sorella del dio della guerra.
Si
dirà: ma come ti viene in mente questa bizzarra divagazione mitologica, con tutti i
problemi che ci girano attorno e proprio nel giorno che precede la festa della
liberazione?
La
risposta è semplice: sfogliando con amarezza, fastidio e timore le pagine dei
giornali di questi giorni mi sorge il dubbio che il livello di discordia
collettiva a cui ci stiamo abituando abbia raggiunto una misura estremamente
pericolosa, dalla quale non può derivare nulla di buono.
L’abbiamo
chiamata, anche qui, crisi sociologica e poi antropologica; forse più esplicitamente
potremmo dirla involuzione diasporica, scollamento delle coscienze e delle
cittadinanze, dissenso endemico, dissidio permanente o come altro volete; ma è
certo, mi pare, che su tutta questa discorde frammentazione di istituzioni,
partiti, corpi intermedi, gruppi di opinione, coscienze collettive, identità valoriali, non può
essere costruito nulla di ciò di cui abbiamo urgente bisogno. Nulla di buono,
comunque.
Domani,
festa della liberazione, Eris sarà per qualche ora forse dimenticata (non ne
sono certo, ma lo spero): magari, forse, ancora forse, sfileremo, faremo bei
discorsi (beh! più realisticamente: discorsi) sui valori fondanti della
resistenza da cui è nata la repubblica, sulla festa di popolo, sulla libertà
recuperata a prezzo di sangue, etc., etc. E magari sentiremo ripetere la frase
con cui Norberto Bobbio rievocò quel mitico 25 aprile: “dopo vent’anni di regime e dopo cinque di guerra, eravamo ridiventati
uomini con un volto solo e un’anima sola”. Un volto solo e un’anima sola,
appunto.
Roma
24 aprile 2016
Nessun commento:
Posta un commento