venerdì 3 maggio 2013

Domande


Saturi di “satura”?
(di Felice Celato)
Un’altra volta mi è capitato di ricordare questa citazione (“Satura tota nostra est”) con la quale i latini rivendicavano appunto la latinità della satira come genere letterario. Lo facevano forse non del tutto a ragione, perché anche della satira esistevano precedenti nella letteratura greca, ma, tant’è, così si studiava al liceo fin dalle prime pagine del manuale di letteratura latina.
Non si può negare che gli italiani abbiano ereditato con entusiasmo questa manifestazione dell’”italum acetum” dei loro antenati; le nostre televisioni e, se esistono ancora, i nostri cabaret, hanno da sempre tributato un largo successo agli sberleffi ridanciani verso il potere: da Petrolini a Grillo (quando faceva il comico, ma anche dopo), da Totò a Guzzanti e Crozza, da Noschese a Pippo Franco, da Lionello a Geppi Cucciari, ognuno col suo maggiore o minore garbo, molti standing comedians (per dirla con gli americani) ci hanno strappato nel tempo e tuttora, sempre più raramente, ci strappano qualche risata, che tempera – magari – le angosce del presente.
E, del resto, gli italiani, anche senza essere dei comici, hanno sempre amato raccontare più o meno salaci storielle sui potenti dei tempi; e anche ridere dei calci dell’asino, talora senza alcuna dignità e rispetto per le loro stesse precedenti adulazioni degli stessi potenti.
Ma, mi domando, a rischio di suscitare il ricorso a sussiegose difese della libertà di satira, è sempre socialmente benefico l’aceto della satira? E’ sempre solo temperamento dello scettro dei regnatori il corrosivo sfaldamento di ogni, di ogni, credibilità di chi governa, a qualunque parte appartenga e per il solo fatto che governa? Se questa corrosione, talora sgangherata (e volgare, ma lasciamo perdere!), arriva alla radice di quel minimo di fiducia collettiva che pure occorre porre a base del tessuto connettivo di un paese, cosa rischia di restare nelle mani degli Italiani se non un senso di disperata e comica inanità di ogni potere, se non un senso di insuperabile sfarinamento di ogni via di uscita? Il sarcasmo corrosivo rischia di distruggere la volontà di costruire, sotto una valanga di scetticismo?
Non ho una risposta equilibrata che tenga anche conto della difficoltà della materia e della innegabile  esigenza di non sottoporre ad ancora più dannose censure l’espressione di chi, in fondo, sembra cercare solo di farci ridere (anche se spesso l’apparenza inganna e l’intento non è così “innocente”).
Ma mi domando, proprio veramente mi domando, non vi sembra che anche dal lato della satira ci sia – come, secondo me e non solo, c’è dal lato dei cosiddetti talk shows – un rapporto di paternità fra queste ormai ordinarie, quasi quotidiane,  forme di comunicazione e i diversi “mostri” che la politica, di tanto in tanto, sforna nel nostro Paese, adattatosi all’urlo e al lazzo? Tutto può liquidarsi con una risata, anche quando questa diventa sempre più forzata, quasi automatica come sembra quella dei molti (veri o falsi) spettatori ridenti e plaudenti ripresi attorno al comico di turno? L’ecologia della convivenza esige qualche limite anche al sarcasmo? E se si, come farlo valere? Basta il solo telecomando, strumento di reazione individuale?
Non so; veramente non so.
Forse il problema sta tutto nel fatto che, se anche la satira “tota nostra est”, la misura ci è sempre mancata. E la serietà delle situazioni spesso ci sfugge. Ma queste cose ce le siamo già dette.
Roma 3 maggio 2013

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