Torniamo a ragionarci
(di
Felice Celato)
In
questi giorni in cui, con incertezze e timidezze del tutto inadeguate alla
gravità della situazione, purtuttavia si ricomincia a parlare delle cose da
fare e a fare i conti con quelle che si possono fare nel contesto politico
e finanziario dato, mi sono trovato a
scambiare con amici alcune idee su quello che è lecito aspettarsi da questa
tormentata fase di passaggio verso una nuova (auspicata ma non certa né facile)
rinascita del Paese.
I
miei amici si sono sorpresi nel sentirmi enunciare concetti che possono
(ingiustificatamente) apparire “liberisti” (si badi bene: io considero questa
una etichetta in sè tutt’altro che negativa, anzi ne vedrei molti aspetti positivi nel
contesto iper-regolamentato in cui viviamo; ma la so connotata di implicazioni
preconcettamente ostili e, qui, ne
prendo semplicemente atto) e che invece
più che “liberisti” definirei
“mobilitazionisti”.
Mi
spiego subito: io credo che la strada giusta sia quella additata qualche tempo
fa, con chiarezza e grande sensibilità sociale, nel progetto “Perché l’Italia non si spenga” messo a
punto dal Professor Capaldo (se ne vedano i riferimenti ai testi originali –
che raccomando di rileggere – nei post del 9 marzo, del 6 maggio e del 4
novembre 2012) e già, ahinoi!, dimenticato nell’orgia delle insensate
beceraggini delle nostre eterne campagne elettorali.
Cioè
credo possibile che, per uno Stato “bloccato” dalle regole che si è dato e che
continua ad immaginare per tutto e su tutto e dalle angustie della sua finanza,
l’unica via di salvezza sia quella di (semplicemente, intelligentemente e
progressivamente) “ritirarsi” da alcune delle funzioni che via via ha assunto e
che i cittadini gli hanno nel tempo crescentemente demandato: cominciamo –
perché così vuole (o crede di volere) la “ggente” dell’una o dell’altra
opinione – dal finanziamento pubblico dei partiti, che va integralmente sostituito da
quello privato, dei cittadini, sia pure con molto ampi e solleciti crediti d’imposta a
fronte delle somme erogate da ciascuno entro un massimale individuale; passiamo
poi alla semplice e radicale eliminazione delle province (tutte e subito!) per
ridurre i livelli di governo del territorio; e poi all’auto-organizzazione di
alcuni servizi pubblici (la sanità e l’assistenza sociale per prime) da
promuovere con adeguati meccanismi fiscali incentivanti e con l’apertura
coraggiosa ad un’evoluzione spinta del no
profit; e così via, riducendo lo Stato al ruolo di garante di ultima
istanza piuttosto che di costoso ( e spesso inefficiente) erogatore di servizi, mobilitando attivamente
cioè (ecco perché chiamerei “mobilitazionisti” questi concetti) le risorse di
operosità, inventiva e capacità di impegno sociale di cui diciamo di essere
ricchi come “popolo” e che in tante occasioni abbiamo anche dimostrato.
Ecco:
io rimango convinto che un approccio di questo genere, attuato con
progressione, misura e chiarezza, potrebbe anche contribuire a pacificare un
ambiente politico ormai teso fino al limite della esplosività, bilanciando un
serio federalismo fiscale con una riforma della tassazione che rispetti appieno
il principio di progressività anche in materia patrimoniale e con una diffusa
(e confusa) istanza di riconduzione del governo della cosa pubblica dalla
politica alla cosiddetta società civile.
Secondo
me, come sanno gli amici che partecipano a queste nostre conversazioni
asincrone, queste prospettive vanno comunicate con chiarezza e veritiere
analisi della situazione in cui siamo, della quale tutti portiamo una parte di
responsabilità, non foss’altro come elettori, e per la quale abbiamo quindi bisogno di
reciproco perdono.
C’è
in queste considerazioni una patina di illusorio irenismo? E’ possibile (e
forse anche probabile) e non sarebbe nemmeno vergognoso data l’abbondanza di
bellicismo sociale in cui viviamo quotidianamente. Del resto anche il progetto
di big society del premier inglese
David Cameron, che per molti aspetti si pone nello stesso filone progettuale,
ha ricevuto critiche analoghe, soprattutto da ambienti laboristi e, credo,
tuttora conosca difficoltà di attuazione. E tuttavia, hic et nunc, non vedo in giro da noi progetti alti né progetti “medi”
meno complicati da attuare… e vedo invece progetti bassi pronti per rotolare….. Vale la pena di parlarne?
Roma,
13 maggio 2013
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