sabato 2 maggio 2015

Sloghiamo gli slogan

“Il profitto per il profitto”
(di Felice Celato)
Sento echeggiare spesse volte – ahimè, spesso in ambiente cattolico – questo slogan condannista, che, ne sono convinto, sentiremo ripetere molte volte a supporto delle retoriche correlate “allo spirito” dell’Expo (iniziativa sulla quale ho diverse riserve, di altra natura, che non è il caso, per ora, di discutere; magari ci torneremo sopra ordinatamente).
Vorrei tentare di svolgere un ragionamento al riguardo, un ragionamento che vorrebbe essere sereno ma pur sempre un ragionamento; e perciò desideroso di serena (ma ragionata e ragionante) contraddizione.
Bene: considerare che la (deprecata da molti) logica del capitalismo consista nella produzione del profitto per il profitto, mi pare onestamente una semplificazione buona per gli slogan ma non radicata nella realtà.
Ora, il profitto è – mi pare incontestatamente – il fine dell’attività economica, un fine di per sé, credo, nobile, perché orientato alla estrazione di ricchezza (e quindi di possibilità economiche) dalle diverse attività dell’uomo. Giustamente, le varie legislazioni dei paesi c.d. capitalisti, pongono numerosi vincoli alle modalità con le quali questo (giusto) fine possa essere perseguito: e così, ci sono regolamentazioni dei rapporti di lavoro, della compatibilità ambientale degli investimenti, dell’uso e della produzione dell’energia, dell’accesso al credito,  delle modalità competitive, etc; e ci sono specifiche discipline per la tassazione del profitto, in capo a chi lo produce (l’impresa) e a chi lo percepisce ( i suoi azionisti); e ci sono anche diverse autorità preposte alla vigilanza sulla osservanza di tali normative (dalle autorità anti-trust, alle vigilanze bancarie, nazionali, europee e non solo europee; dalle autorità di borsa alle autorità fiscali, munite anche di specifiche potestà di polizia tributaria; dagli organismi che tutelano la standardizzazione di criteri contabili alla semplice magistratura che presidia l’osservanza delle dettagliatissime norme civilistiche e penali che disciplinano l’attività di impresa; etc. etc.). Sicchè, l’altro slogan corrente (un “polifonema”?) per cui il capitalismo sarebbe sempre (per connessione verbale pavlovianamente ripetuta) sfrenato o selvaggio mi pare, anch’esso, largamente infondato: poche altre attività dell’uomo sono così regolamentate come l’attività economica, direi forse nessun’ altra.
Dunque, credo, un profitto conseguito nel rispetto di queste tante normative è cosa buona e giusta. O no?
Facciamo ora un altro passo avanti: chi ricerca il profitto può farlo per puro amore dell’accumulo di ricchezza: come Paperon de’Paperoni può amare riempire fisici forzieri di monete. Ma i Paperon de’ Paperoni, con la mania di fare il bagno nelle monete, esistono solo nei cartoni animati; nella realtà gli accumulatori di ricchezza, una volta che l’abbiano conseguita (a loro rischio), molto probabilmente la investiranno, o in altre imprese (ovvero in azioni di imprese), o in altri titoli, magari obbligazionari (emessi da altre imprese per finanziare il loro sviluppo o dallo stato per fronteggiare i suoi bisogni) o anche solo depositandola in banca (la quale, dedotte le riserve obbligatorie imposte dalla normativa bancaria, ne farà prestito ad altre imprese per finanziare altri investimenti); oppure le consumeranno, magari per comprarsi lo yacht ( a sua volta costruito da un’impresa cantieristica, con tanto di ingegneri, impiegati, operai, etc) o  sontuose ville (a loro volta costruite da imprese di costruzione con tanto di ingegneri, impiegati, operai, etc); etc. etc.
Se questo quadro è vero, si può dire più sensatamente che il profitto è prodotto “per il profitto” o che il profitto è prodotto per generare altri investimenti, altri redditi e, perché no?, altri profitti? Che, macroeconomicamente parlando, il profitto è un fine o, a sua volta, un mezzo?

Ripeto: sto parlando del profitto prodotto nel rispetto delle normative che disciplinano le attività economiche. Se sbaglio, correggetemi; se ho ragione, ribellatevi con me allo slogan di cui discutiamo!
Roma, 2 maggio 2015

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