Il pensiero è ciò che manca ad una
banalità per essere un pensiero
( Karl Kraus)
(di
Felice Celato)
Quasi
tre anni fa ci siamo soffermati, su queste “colonne”, a riflettere sulla
“banalità del male”, partendo da un paio di letture che rimangono per me fra le
più interessanti di questi anni: i due post,
dell’aprile e dell’agosto 2012, si intitolavano, rispettivamente, Ecologia della convivenza /2 e Ecologia della convivenza/3 e prendevano
spunto da L’arazzo rovesciato di G.Cucci e A. Monda e, appunto, da La banalità del male di A. Arendt.
Ancorché
la materia non si presti a facili giochi di parole, vorrei oggi soffermarmi invece sul
concetto del male della banalità, perché, francamente, mi pare un tema sul
quale non spesso si riflette. Per la verità anche a questo tema ci siamo
avvicinati altre volte, tutte le volte che abbiamo parlato delle lofty platitudes tanto diffuse in
ambiente mediatico ma anche istituzionale e politico in generale. Ma forse vale
la pena di ritornarci sopra perché, se l’abbiamo frequentemente denunciata, la
banalità di molte cose che ascoltiamo quotidianamente, non mi pare che ne
abbiamo considerata l’intrinseca nocività culturale e sociale.
Bene:
perché dire delle banalità è intrinsecamente male? Diceva sant’Ignazio
(Esercizi Spirituali) “Non dire parola
oziosa; con ciò intendo, quando non giova né a me né ad un altro, e neppure è
diretta a tale scopo”; e capisco che sia difficile, per noi che rifuggiamo
il silenzio. Ma anche per chi non aspira
a tanta virtù, la banalità fa male, perché, naturalmente e in forma
surrettizia, trasforma ogni pensiero in luogo comune; perché avvilisce il
pensiero e ne mina ogni vigore; perché abolisce la coscienza e, talora, il
dolore (o la gioia) della realtà; perché appiattisce la realtà, facendola
apparire scontata, anche quando scontata non è.
Sia
ben chiaro: sono fermamente convinto che nessuno, se non segue l’insegnamento
di sant’Ignazio, possa sottrarsi al rischio quotidiano di dire banalità (forse vale la pena ricordare un altro post, scherzoso ma non troppo, che
chiamammo Il MIFTI, Minimum Irrepressible Futile
Thinking Index, in uno Stupi-diario
dell’ottobre scorso); però, almeno, si dovrebbe pensare che il coefficiente
insopprimibile di propensione alla banalità del dire (e del pensare) decresca
col crescere dell’autorevolezza del dicitore, tanto più quando l’autorevole
dicitore per natura parla poco o, per funzione, dovrebbe parlare poco. Leggendo
i giornali di questi tempi, temo che così non sia; il che aggrava notevolmente
il male delle banalità, perché più autorevole è il dicitore di banalità più è
grave l’effetto propalativo delle sue parole. In poche parole, la banalità
autorevole è un male (un doppio male, direi) perché, appunto, da un lato banalizza
un problema che essendo in bocca ad un Autorevole Personaggio, banale non
dovrebbe essere; e, dall’altro, banalizza il personaggio, sicchè, quando
questo, per caso, dica una cosa non banale, inevitabilmente questa apparirà
simile a quella banale altre volte propalata; infine, quando l’Autorevole
Personaggio, lo scegliamo noi (direttamente o indirettamente) e ci rappresenta,
ci fa anche rabbia sentirci dire da lui ciò che già dicono tutti.
E’
un po’ quello che accade ai Personaggi Autorevoli quando ripetono le cose che
si leggono sui giornali e che forse noi conosciamo meglio di loro, magari
pensando che questo dire banalità li avvicini al banale modo di pensare che si
assume diffuso, li faccia sentire più vicini alla gente dicendo quello che la
gente dice, starei per dire più “democratici” come se la democrazia consistesse
nella banalità del pensiero.
Non
mi va di esemplificare, perché tanto autorevoli sono le banalità che mi pare di
aver sentito in queste settimane che proprio non mi va di mancare di rispetto
ad alcuno. Spero solo di aver suscitato una sana vigilanza (democratica, s’intende!)
Roma
18 maggio 2015
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