lunedì 18 maggio 2015

Il male della banalità

                                                             Il pensiero è ciò che manca ad una       
                                                                       banalità per essere un pensiero
                                                                       ( Karl Kraus)

(di Felice Celato)
Quasi tre anni fa ci siamo soffermati, su queste “colonne”, a riflettere sulla “banalità del male”, partendo da un paio di letture che rimangono per me fra le più interessanti di questi anni: i due post, dell’aprile e dell’agosto 2012, si intitolavano, rispettivamente, Ecologia della convivenza /2 e Ecologia della convivenza/3 e prendevano spunto da L’arazzo rovesciato  di G.Cucci e A. Monda e, appunto, da La banalità del male di A. Arendt.
Ancorché la materia non si presti a facili giochi di parole, vorrei oggi soffermarmi invece sul concetto del male della banalità, perché, francamente, mi pare un tema sul quale non spesso si riflette. Per la verità anche a questo tema ci siamo avvicinati altre volte, tutte le volte che abbiamo parlato delle lofty platitudes tanto diffuse in ambiente mediatico ma anche istituzionale e politico in generale. Ma forse vale la pena di ritornarci sopra perché, se l’abbiamo frequentemente denunciata, la banalità di molte cose che ascoltiamo quotidianamente, non mi pare che ne abbiamo considerata l’intrinseca nocività culturale e sociale.
Bene: perché dire delle banalità è intrinsecamente male? Diceva sant’Ignazio (Esercizi Spirituali) “Non dire parola oziosa; con ciò intendo, quando non giova né a me né ad un altro, e neppure è diretta a tale scopo”; e capisco che sia difficile, per noi che rifuggiamo il silenzio.  Ma anche per chi non aspira a tanta virtù, la banalità fa male, perché, naturalmente e in forma surrettizia, trasforma ogni pensiero in luogo comune; perché avvilisce il pensiero e ne mina ogni vigore; perché abolisce la coscienza e, talora, il dolore (o la gioia) della realtà; perché appiattisce la realtà, facendola apparire scontata, anche quando scontata non è.
Sia ben chiaro: sono fermamente convinto che nessuno, se non segue l’insegnamento di sant’Ignazio, possa sottrarsi al rischio quotidiano di dire banalità  (forse vale la pena ricordare un altro post, scherzoso ma non troppo, che chiamammo Il MIFTI, Minimum Irrepressible Futile Thinking Index, in uno Stupi-diario dell’ottobre scorso); però, almeno, si dovrebbe pensare che il coefficiente insopprimibile di propensione alla banalità del dire (e del pensare) decresca col crescere dell’autorevolezza del dicitore, tanto più quando l’autorevole dicitore per natura parla poco o, per funzione, dovrebbe parlare poco. Leggendo i giornali di questi tempi, temo che così non sia; il che aggrava notevolmente il male delle banalità, perché più autorevole è il dicitore di banalità più è grave l’effetto propalativo delle sue parole.  In poche parole, la banalità autorevole è un male (un doppio male, direi) perché, appunto, da un lato banalizza un problema che essendo in bocca ad un Autorevole Personaggio, banale non dovrebbe essere; e, dall’altro, banalizza il personaggio, sicchè, quando questo, per caso, dica una cosa non banale, inevitabilmente questa apparirà simile a quella banale altre volte propalata; infine, quando l’Autorevole Personaggio, lo scegliamo noi (direttamente o indirettamente) e ci rappresenta, ci fa anche rabbia sentirci dire da lui ciò che già dicono tutti.
E’ un po’ quello che accade ai Personaggi Autorevoli quando ripetono le cose che si leggono sui giornali e che forse noi conosciamo meglio di loro, magari pensando che questo dire banalità li avvicini al banale modo di pensare che si assume diffuso, li faccia sentire più vicini alla gente dicendo quello che la gente dice, starei per dire più “democratici” come se la democrazia consistesse nella banalità del pensiero.
Non mi va di esemplificare, perché tanto autorevoli sono le banalità che mi pare di aver sentito in queste settimane che proprio non mi va di mancare di rispetto ad alcuno. Spero solo di aver suscitato una sana vigilanza (democratica, s’intende!)

Roma 18 maggio 2015

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