In attesa del Vino Nuovo
(di Felice Celato)
Sollevo la testa che tenevo fra le mani disperate non perché – così trattenendola – abbia trovato soluzioni all’angoscia dei tempi: da qualche settimana non ci sentiamo in questa sede (dal giorno di Pentecoste, per l’esattezza) perché le parole stanche che macinavo mi hanno un po' usurato e forse reso noioso (anche se, riferisce Quartz, boredom is an important adaptive function and can be good for us). Ma il fatto “nuovo” che mi induce a riprendere la penna (pardon: la tastiera) è una considerazione che veniva facendo un amico, raffinato nella mente e nel cuore: in fondo, diceva l’amico G., non ci meritiamo il nostro presente! L’esclamazione (della quale condivido i presupposti) mi ha “risvegliato” il ricordo di una considerazione – solo apparentemente paradossale – di Sant’Agostino (Confessioni, cap 11). Provo a riassumerne il senso: né futuro né passato esistono (il primo perché ancora non è, il secondo perché non è più); e il presente, in fondo, fa continuamente passare il futuro in passato (sicché il primo si contrae ed il secondo cresce, finché la consumazione del futuro tutto non è che passato).
Il fatto è che se guardo al tempo identificandolo col presente (perché è l’unico che esiste, sia pure per far scorrere il futuro verso il passato), lo sgomento di G. non può che apparire giustificato, almeno per chi condivide le nostre analisi del presente civile del nostro paesello accaldato (e, per la verità, non solo di questo!). Ma il discorso sul merito (meritiamo il nostro presente?) non può che comportare la ricerca, nel presente, delle sue radici nel passato (il futuro, che per definizione ancora non è, in questo discorso sul merito, per fortuna non entra; del resto, qualche settimana fa – e tuttora – mi pareva affidato, come forse ricorderete, a quelle sei anfore di pietra da riempire con Vino Nuovo, perché noi, da soli, non abbiamo più vino!).
Bene: sul passato tralascio di farvi rapporto di letture alle quali ho affidato in queste settimane l’esorcismo sul presente, senza trovarvi consolazione: ho riletto I sonnambuli di Christopher Clark - qui segnalato col post Storie dell’8 aprile del 2016 – e letto il (troppo) corposo romanzo/reportage storico di Antonio Scurati M, Il figlio del secolo (Premio Strega 2019, Bompiani, 2019): ce n’è abbastanza per dubitare profondamente sulla benemerenza delle nostre trascorse radici antropologiche.
Ma, seguendo Sant’Agostino, prendiamo atto che il tempo passato non è più perché in esso si sono già consumati tutti i nostri presenti; e dunque che il nostro merito del presente non possa che essere ricercato nel presente.
E allora vi propongo un esercizio banale, una specie di esame di coscienza antropologico, che affido alla vostra indulgenza se, per caso, dovesse sembrarvi stolido o distruttivo o solo provocatorio o inutilmente corrosivo.
Proviamo a considerare, uno per uno, i termini coi quali il Vocabolario Treccani descrive il senso della parola cialtrone e, uno per uno, domandiamoci se, per caso, non ci paia perfettamente corrispondente ad una certa smagata auto-valutazione che possiamo fare di noi stessi (intesi come collettività o, meglio, come carattere collettivo prevalente sulle nostre molteplici – e talora meravigliose – individualità):
Cialtróne s. m. (f. -a)
Persona volgare e spregevole,
arrogante e poco seria,
trasandata nell’operare,
priva di serietà e correttezza nei rapporti personali,
o che manca di parola nei rapporti di lavoro.
Anche, con significato attenuato,
persona sciatta nel vestire e nel portamento,
o che nel lavoro sia solita fare le cose in fretta e senza attenzione.
Io l’ho fatto, quest’esercizio, e – a parte la sciatteria nel vestire e nel portamento (perbacco! Siamo il Paese del buon gusto, che tutto il mondo ci invidia!) – vi ho visto una spietata radiografia della nostra collettività, così come essa mi appare nel suo complesso; e per ognuna delle definizioni della Treccani avrei Kilate di esempi, dai nostrani leoni da tastiera, ai contenuti dei programmi televisivi più seguiti, alla diffusa arroganza del non sapere, alla miserevole sciatteria di molti nostri “fare”, alla sconvolgente scorrettezza nei nostri doveri fiscali o previdenziali, alle impronte digitali che dobbiamo lasciare per testimoniare che siamo al lavoro, al disarmante legalismo con cui valutiamo i comportamenti degli altri, etc.
E allora, caro amico G. (esempio di una delle tante meravigliose individualità che ci confortano), davvero non meritiamo il nostro presente (del resto democraticamente corroborato)?
Ma ci soccorre Sant’Agostino: in fondo il nostro presente, mentre parliamo, è già diventato il nostro passato. E poi ci sono sempre le sei anfore di pietra…, in attesa del Vino Nuovo.
Roma, 3 agosto 2019
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