sabato 22 dicembre 2018

Ancora letture

Autunno tedesco
(di Felice Celato)
Ancora un bel libro, in questo fortunato scorcio dell’anno (fortunato in quanto a letture, intendo!), da segnalare ai miei amici, soprattutto per le (istruttive) riflessioni che forse suggerisce.
Si tratta di una serie di reportages (raccolti sotto il titolo Autunno Tedesco) che riemergono da tempi ormai dimenticati (ma certo non lontani) e scritti da un (allora) giovane intellettuale svedese, Stig Dagerman (1923-1954), che visitò la Germania nel 1946, a poco più di un anno dalla fine della guerra, mentre il Paese, ancora in macerie, si affannava a percorrere la strada della purificazione e della rifondazione in forma democratica dei brandelli di uno stato travolto dalla catastrofe nazista.
La Germania, che solo qualche anno prima viveva celebrando le infauste glorie del regime e che ora faticava a calpestarne i ruderi, vi appare nella sua cruda realtà di paese non solo vinto ma distrutto nei beni e nell’anima, oggetto di un odio secondo solo a quello che esso stesso aveva seminato nel mondo. Macerie, dicevo, fra le quali la miseria e le enormi difficoltà materiali del ritorno alla pace, seminavano sentimenti di rimpianto del benessere perduto, rimorsi dolorosi e profonde insicurezze sulla via, forse, più che intrapresa, imposta dalle esigenze della nuova pace.
Dagerman indugia sulla realtà materiale ed umana della Germania sconfitta con l’occhio pietoso di chi sa che la sofferenza meritata non è meno difficile da sopportare di quella immeritata e che la fame e gli stenti non sono certo buoni maestri di democrazia, specie quando necessariamente si confrontano coi (relativi) agi degli occupanti o, magari, come talora avviene, coi minori disagi dei nazisti fortunosamente scampati al crollo del loro stesso regime. Le “istantanee” che la penna del giovane svedese (aveva circa 23 anni all’epoca del suo viaggio) scatta in giro per le città più distrutte sono tutte desolate e pervase da una miscela di sentimenti che comprendono anche la rabbia, magari confusa e al tempo stesso consapevole della storia che ha partorito la rovina. Ma non è il filone estetico-narrativo, a mio parere, il pregio maggiore del libro, che pure non è privo di pregi letterari. Mi pare piuttosto che il senso più profondo di Autunno tedesco (non necessariamente in linea con le convinzioni dell’autore) sia di natura filosofica, perché chiama in causa il concetto di collettiva responsabilità degli uomini verso i destini della loro storia. Un concetto che, se vale certamente per i popoli che si governano in regime democratico, vale anche, secondo me, per quelli che accettano i loro stessi tiranni, magari dopo averne promosso o permesso la tirannia.
Mi spiego meglio facendo ricorso ad una mia convinzione che credo di aver qui enunciato altre volte: i popoli pagano sempre fino in fondo le colpe dei loro capi, siano essi democraticamente (e quindi temporaneamente) designati a governarli o autocraticamente insediatisi quali loro reggitori, anche se non sempre necessariamente dissennati. E ciò per una “giusta” ragione: nel primo caso, per non averli saputi scegliere o revocare quando era opportuno o necessario farlo; nel secondo caso per averli tollerati quando l’esercizio di una desta vigilanza poteva leggerne chiaramente l’indirizzo scellerato.
Ciò che più mi interroga della storia del primo novecento europeo è come sia stato possibile che – pur fomentato dalle colpe accumulate dai vincitori della prima guerra mondiale – un popolo ricco di cultura e di umanità come quello tedesco abbia potuto, così a lungo e fino alla feccia, abbeverarsi alla coppa di aceto che il folle imbianchino gli propinava, facendogli credere che si trattasse di un elisir di superba invincibilità del loro lignaggio. 
Si dirà che non solo ai tedeschi, tutto ciò è capitato (anche la più rozza e meno feroce Italia in quegli anni si assoggettò plaudente all’inganno e alla demagogia più insensata); e che – anche – la fatica del loro lento ritorno alla civiltà potesse in fondo essere “giustificato” dall’odio sparso nel mondo a prezzo di immani perdite di vite e di beni. E tuttavia Stig Dagerman getta uno sguardo inquieto su questo spietato bilancio, domandando a se stesso e ai suoi lettori se il male può essere compensato da altro male (che è, in fondo, la domanda che suscita ogni pena, specie se collettiva) . La mia inquieta risposta sta tutta in quel principio di responsabilità che prima tentavo di formulare; un principio che richiama sempre il cittadino, in ogni tempo, alla vigilanza critica sul reggimento della sua comunità, nella certezza storica che, prima o poi, la responsabilità oggettiva di ogni comunità prende su di sé  le colpe dei suoi capi.
Roma  22 dicembre 2018

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