mercoledì 5 dicembre 2018

Voces

Nostalgia degli esseni
(di Felice Celato)
Non so se stia succedendo solo a me, ma, da qualche tempo, mi cresce ogni giorno una nausea profonda per l’orgia insensata delle parole. Pensate, solo per fare un esempio, alla ridda di voces sulla cosiddetta manovra economica: si cambia, non si cambia; numeri, numerini e numeretti che si possono cambiare senza cambiare la sostanza (?); oppure si può cambiare la sostanza senza cambiare i numeretti (?); è espansiva o recessiva; no, è per la crescita, ma c’è poca crescita, anzi c’è solo decrescita (felice o infelice?); è credibile (?) o non credibile (?), da riequilibrare in meglio (?) o da confermare nel giusto (?); c’è stato persino chi ha detto che un conto è quanto si mette a bilancio, un conto quanto si spende (lasciando intendere che l’intera manovra è un cosciente inganno); e si potrebbe continuare nella galleria delle parole senza più significato, di meri flatus vocis utili, tutt’al più, se fa freddo ed è umido, a far comparire una nuvoletta di vapore davanti alla bocca e non certo a veicolare significati; e ciò,  per la verità, non solo nell’ambito di coloro che la famosa manovra dovrebbero disegnarla.
Una nausea, dicevo, che mi parte dal cervello ogni volta che mi accosto alla lettura o all’ascolto di notizie, di discorsi, di commenti riferiti al reale (o meglio: alla nostra rappresentazione del reale), ogni volta che cerco di entrare nel circuito dei significati che dovrebbero aleggiare nel rumore delle voci. Non sono un linguista ma questo vecchio concetto della filosofia del linguaggio mi pare di ricordarlo abbastanza bene: voces significant res mediantibus conceptis; e io – sempre più spesso – fatico ad intravvedere le cose (res) al di là delle parole (voces) e proprio mi perdo alla ricerca vana dei sottostanti concetti.
Si dirà – a ragione – che questa non è una notizia: qui, del resto, più volte abbiamo discusso della irreparabile faglia che sembra essersi aperta – complici i media! – fra significati e significanti del nostro parlare. Oppure si potrà ironizzare sulla mia (conseguente?) maniacale ricerca di rifugio nei numeri (senza diminutivi o vezzeggiativi), che, però, sono solo significanti quantitativi e non certo, di per sé, significati. 
Ma tutto ciò prova solo che la nausea è montata lentamente, si è attestata sull’epigastrio come il lento progredire di un profondo mal di mare, e si è poi trasformata – magari ratione aetatis – in disgusto vero e proprio, una specie di ripugnanza per il cibo mentale che le parole non riescono più a veicolare: non è una pura coincidenza che abbia cominciato ad annullare i rinnovi automatici di diversi abbonamenti a giornali e riviste delle quali da tempo ero tenace lettore. Non serve molto cibo quando l’epigastrio sembra rinserrarsi ermeticamente.
Dunque, nuova o lentamente progredita, la nausea è nausea, e per curarla ci vuol altro che acqua e nux vomica. E francamente mi pesa molto perché le parole sono il veicolo essenziale della nostra umanità, col quale mi sono abituato, anche con qualche intellettuale compiacimento, a “viaggiare” nella vita e nella cultura.
Un brano del drammatico capitolo 12 del Vangelo secondo Matteo, da questo punto di vista (anzi, da quello morale), fa molto effetto: Gesù si confronta duramente con gli scribi e coi farisei sull’osservanza del sabato (le spighe còlte, il paralitico guarito, la richiesta del segno, etc.) e, alla fine, “sbotta” in una delle Sue rare invettive (i vv.34-37, che gli esegeti chiamano una teologia della parola): Razza di vipere, come potete dire cose buone, voi che siete cattivi? La bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda. L’uomo buono dal suo buon tesoro trae fuori cose buone, mentre l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori cose cattive. Ma io vi dico: di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio; infatti in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato.
Forse, come scrive un esegeta tedesco (E. Stauffer, citato da O. da Spinetoli, in Matteo, Cittadella, 1983) il brano fa parte della paideia stomatos, cioè dell’educazione della bocca, tanto importante nella disciplina monastica dei taciturni esseni. E nessuno, beninteso, si illude di poter raccomandare ai politici (e a certi loro vacui commentatori) di coltivare la spiritualità del deserto; ma nemmeno la totale dispersione dei significati può essere loro consentita; nemmeno se serve a non avere nessun obbligo morale rispetto alle conseguenze di ciò che si dice (G. Antonelli, Volgare eloquenza, Laterza, 2017), solo perché tutto si dice senza nulla voler o saper significare.
Roma, 5 dicembre 2018

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