Repetita taediant?
(di Felice Celato)
Mi pare di aver detto più volte che l’esercizio di rileggere a distanza di tempo libri già letti ha per me un significato triplice: il primo e più ovvio è quello di rivivere suggestioni letterarie e culturali già sperimentate (ovviamente se il libro che si rilegge ha, nella mia memoria, le qualità per meritare una rilettura; per esempio, qualche tempo fa ho riletto I Promessi sposi); il secondo è quello di misurare gli effetti del tempo (e dell’età) sui miei stessi giudizi; poi, talora, ce n’è un terzo (riservato però a soli pochi libri) che sta tutto nella funzione “psico-terapeutica” che assumono per me alcune letture; così, per fare un esempio altre volte qui confessato, rileggere Requiem di Antonio Tabucchi (l’ho rifatto forse per la ventesima volta in queste notti) mi comunica un senso di dolcissima evasione in un “luogo” della mente dove la realtà scompone il vissuto e i ricordi in atmosfere oniriche e metafisiche (cfr. post del 28 3 2012). E l’evasione per almeno una notte dura!
In questo tempo in cui l’osservazione del mondo non suscita certo entusiasmi ma, per quel che mi riguarda, nemmeno modeste indulgenze, ho ripreso in mano un libro di quasi settant’anni fa (di Mario Pomilio: Il testimone, Mondadori), scritto da un autore del quale ho programmato una integrale rilettura. Potrebbe apparire un singolare thriller (sia pure di grande eleganza culturale), dove l’assassino propriamente non è un uomo ma una crudele concatenazioni di fatalità che il semplice adempimento di un dovere non riesce a dominare. La banalità del male si direbbe ripensando ad Hannah Arendt; e, infatti, il protagonista del libro di Pomilio, di fronte ai dolori che il puro adempimento del dovere scatena, si lascia consolare così: in fondo, nell'ambito del proprio dovere, quando uno si è applicato sul serio a compierlo, ciascuno finisce per avere il suo grande alibi…; ma gli restano in mente le inquietudini che qualcuno gli ha gettato addosso, quasi casualmente: se almeno in quel grande deserto che sta diventando il nostro spirito, potessimo recuperare la coscienza di non essere soli; se almeno tutte le volte che stiamo facendo qualcosa ci sforzassimo di immaginarci di avere un testimone delle nostre azioni….
Torno brevemente al tema che la ri-lettura mi ha evocato: la banalità del male, dicevo; ma in una configurazione più adatta a quella che mi pare la nostra dimensione del presente (certamente meno drammatico di quello che considerava la Arendt nel raccontare il processo ad Eichmann): il male della banalità, cioè il male che ci facciamo con la nostra (forse inconsapevole) acquiescenza alla qualità del nostro pubblico vociare. Ne parlavo qui quasi nove anni fa – cfr. post del 18 maggio 2015, al quale rinvio; rileggendomi, mi trovo, ancor oggi e forse ancor di più, in quello che scrivevo.
Se penso che in questo contesto sociologico e “culturale” ci avviamo verso una consultazione elettorale di grande rilievo per il nostro futuro, mi vengono i brividi.
Infine un’altra rilettura, presa anche questa da un autore qui più volte segnalato e da me molto amato: di Eric Emmanuel Schmitt Il figlio di Noè (e/o editore, 2018). Anche di questa emozionante e gradevolissima lettura, però, mi sono accorto di aver già parlato ai miei pazienti lettori (cfr. Una favola per adulti del 30 novembre 2019).
Dunque i casi sono due: o morbus ipsa senectus, e – si sa – nella vecchiaia ci si ripete; o – ed è la tesi alla quale disperatamente mi aggrappo – sono le circostanze del presente che mi inducono a volgermi indietro, sia nelle letture che nelle riflessioni che le accompagnano. Il guaio è che queste ultime, col passare degli anni, tendono a farsi più cupe, non foss’altro che per la constatazione che il decorso del tempo non ha migliorato le mie percezioni. Che debba rassegnarmi al morbus ipsa senectus?
Roma 18 gennaio 2024
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