L’Italia è stanca
(di
Felice Celato)
L’Italia
è stanca: non dalla fatica, per quanto per molti italiani la vita sia diventata
assai faticosa, né dalla strada percorsa, perché il Paese è da troppo tempo
immobile, seduto con le mani in grembo.
L’Italia
è stanca mentalmente, come un vecchio, sazio di giorni e attardato nei suoi
processi mentali, che non capisce più dove vive e quanto gli resta da vivere;
che non riconosce chi gli sta dintorno e che si sente sfuggire le forze persino
per essere autonomo. E allora si aggrappa alle memorie, che rivive con
incongrua passione, siano esse memorie di un’epoca innervata dalle ideologie o
memorie dolorose (anzi tragiche) di un tempo ormai lontano; non riesce più,
l’Italia, a capire il presente, in parte perché non ha adeguato il suo modo di
guardare al mondo che cambia, in parte perché il presente è troppo confuso e
rumoroso per consentire ad un vecchio di discernere le radici di un bene che,
pure, per quanto occultato da mille retoriche vuote, non può essere scomparso
dal mondo (e da questo piccolo, oscuro frammento di esso che è la piccola
Italia).
Da
tempo sta maturando, nei più avveduti, questa percezione di stanchezza mentale
del paese: ne parlano, con ricchezza di accenti, le analisi del Censis, i molti
articoli degli osservatori meno ideologizzati (gli ultimi, oggi: Galli della
Loggia sul Corriere della sera e di
Zingales su Il sole 24 ore) e,
nell’angusto confine di questo blog
per pochi amici, anche le nostre note tristi che, da tempo, mi sono valse
l’etichetta di un solitario e cupo
pessimista.
Francamente
non vedo come si possa uscirne se non, come dice Capaldo (vedasi la relazione
introduttiva al Convegno “Punto e a capo” del 13 ottobre scorso), attraverso un
forte processo di discontinuità: anzitutto dei politici, nei confronti
della loro trita strategia dei piccoli aggiustamenti tattici, delle misure di
corta portata, ammantate di vuoti slogan epocalistici e intrise di disprezzo
per la capacità di discernimento dei cittadini (la vicenda Imu/Tasi ne è un esempio,
solo il più recente); e disconnessi da una progettualità seria che affronti i
veri temi del paese (eccesso di burocrazia e di stato, statalismo opprimente e
pervasivo, anche nella immaginazione delle vie d’uscita dalla crisi economica,
etc), ridando alla politica quel fondamento etico che, come dice Capaldo, non
sta solo nel non rubare ma
ancora prima nel fare ciò che si deve fare. E, poi, discontinuità dei cittadini nei
confronti del loro modo di porsi verso la politica, alla quale sarà giusto
riconoscere il rispetto che merita (quando lo meriterà) ma dalla quale è anche
giusto rivendicare la protezione per le cose che il cittadino da solo o
associato sa e può fare meglio di uno stato, esausto della propria costosa
inefficienza.
Che
questa discontinuità sia alla portata culturale e sociologica del Paese, si può
anche dubitare, ovviamente. E si può anche dubitare che sia possibile trovare
un “attivatore” di questo processo, visto che occorrerà cercarlo nell’ambito
della politica (che al momento non sembra offrire attenzioni per istanze di
riprogettazione del futuro).
La
discontinuità, purtroppo, talora esige passaggi traumatici, che ovviamente
nessuno auspica.
Resta,
se no, la continuità, fatta di “parlare del parlare”, di polemiche sui funerali
(siano essi di Priebke o dei poveri immigranti di Lampedusa), di nuove
operazioni Alitalia, di conti che non tornano, di debito pubblico che non cala,
di disoccupazione che non scende, di spese che non si tagliano, di pressione
fiscale opprimente, di impoverimento industriale, di competitività che cala, di
livelli di istruzione inadeguati, di servizi scassati, e di quant’altro siamo
abituati a sentire, quasi insensibili, ormai, agli “allarmi” che ogni giorno,
come dicono “i buoni giornalisti”, ci sentiamo lanciare da ogni parte, ma anche
increduli “ai segni di ripresa” che, anch’essi, si vogliono scorgere da ogni parte.
Roma,
20 ottobre 2013.
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