mercoledì 1 febbraio 2017

Esternalità democratiche

Democrazia e percezioni
(di Felice Celato)
In economia (specialmente nell’economia delle infrastrutture) si definiscono esternalità le conseguenze che una determinata azione di un soggetto economico produce sul benessere di altri soggetti senza che questi ne paghino il prezzo o ne ricevano il compenso. Si hanno così esternalità positive quando l’azione accresce il benessere di qualcun altro senza che questo ne paghi il prezzo (tipicamente: una nuova acciaieria stimola la domanda di servizi  nell’area in cui sorge); e esternalità negative quando l’azione riduce il benessere di altri senza che questi ne ricevano un compenso (tipicamente: l’inquinamento è una esternalità negativa di una acciaieria).
Bene; anche la democrazia (mi ripeto, a scanso di equivoci, citando Churchill: la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre) ha le sue esternalità negative; fra queste, la diffusione della convinzione che ciò che è largamente condiviso sia giusto e che la larghezza del consenso sia la misura delle validità delle opinioni condivise. L’età della rete ha fatto il resto, moltiplicando le forme di misurazione del consenso e rendendole così pervasive, fatue e labili da far temere che l’esternalità negativa di cui stiamo parlando sia diventata una vera e propria malattia del giudizio; anche quando si manifesta in forma fisica, diversa dai like internettiani: il NYT raccontava qualche giorno fa che il presidente Americano Donald Trump si sia così compiaciuto in TV (intervista a ABC News) dei 160.000 (?)  presenti alla  cerimonia di inaugurazione del suo quadriennio (I looked over that sea of poeple and I said to myself: wow!) da fargli proclamare che la folla convenuta fosse the biggest in history, cosa che – dice il NYT – è certamente molto lontana dalla verità (non a caso, un paio di giorni dopo, sullo stesso giornale, il premio Nobel Krugman, che di numeri se ne intende, parlava di embarassing small inauguration crowd). Ma tant’è, oggi non contano più nemmeno i numeri ma la percezione degli stessi, per quanto soggettivo o interessato possa essere il dimensionamento che se ne dà, appunto per “creare” quella insidiosa convergenza fra il pensiero dominante e la sua stessa rappresentazione mediatica, che costituisce, per dirla con Ilvo Diamanti (in Dare i Numeri, di N. Pagnoncelli, già citato su questo blog),  l’illusione reale, la percezione fatta realtà.
Certamente la democrazia – come sarebbe di un’infrastruttura – ha anche le sue esternalità positive: fra queste, la diffusa convinzione che ciò che è democratico sia anche – ipso facto – rispettoso dei diritti individuali, socialmente sensibile, esente da pregiudizi, etc.
Pur essendo anch’essa falsa, tale convinzione la considero una esternalità positiva perché rafforza la buona percezione della democrazia (della quale, come abbiamo visto, non riusciamo a fare a meno) e la rende (almeno a parole) di larga accettazione (il che dovrebbe sbarrare la strada ai suoi interessati e insidiosi nemici, almeno a quelli espliciti). Ciò non di meno, come dicevo, questa diffusa convinzione è anch’essa falsa (né più né meno di quella secondo la quale ciò che è largamente condiviso è cosa buona e giusta) come dimostra ampiamente la storia. Gli esempi sono talmente tanti che non serve farne; basterà forse dare un’occhiata a come vengono valutati nel mondo e negli USA i primi provvedimenti di Trump, democraticamente eletto solo qualche settimana fa.
E allora? Forse che la democrazia diffonde solo falsità? Forse che anche tutte le sue esternalità sono solo inganni?
Mah! Io direi che dovremmo abituarci a considerare la democrazia per quello che è: nient’altro che una modalità (la migliore fra quelle fino ad oggi sperimentate) per la formazione della volontà di uno stato, senza alcuna garanzia che tale volontà sia giusta e buona; è solo la volontà della maggioranza, e le maggioranze (né più né meno delle minoranze) sono buone o cattive a seconda delle volontà (più o meno coscienti) di quelli che le compongono.
Semmai, se le vicende americane di questi tempi contengono un insegnamento (e gli USA sono senz’altro una democrazia esemplare), è quello che, nell’età della percezione, conta anche come si rappresentano le azioni politiche, sia quando per esse si chiede il voto sia quando le si attua: l’esasperazione dei toni paga, in termini di consenso (almeno per un po’).
Roma 1° febbraio 2017





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