Democrazia e percezioni
(di Felice Celato)
In
economia (specialmente nell’economia delle infrastrutture) si definiscono esternalità le conseguenze che una
determinata azione di un soggetto economico produce sul benessere di altri soggetti senza
che questi ne paghino il prezzo o ne ricevano il compenso. Si hanno così esternalità positive quando l’azione
accresce il benessere di qualcun altro senza che questo ne paghi il prezzo
(tipicamente: una nuova acciaieria stimola la domanda di servizi nell’area
in cui sorge); e esternalità negative
quando l’azione riduce il benessere di altri senza che questi ne ricevano un
compenso (tipicamente: l’inquinamento è una esternalità negativa di una
acciaieria).
Bene;
anche la democrazia (mi ripeto, a scanso di equivoci, citando Churchill: la democrazia è la peggior forma di governo,
eccezion fatta per tutte le altre) ha le sue esternalità negative; fra queste, la diffusione della convinzione
che ciò che è largamente condiviso sia giusto e che la larghezza del consenso
sia la misura delle validità delle opinioni condivise. L’età della rete ha
fatto il resto, moltiplicando le forme di misurazione del consenso e rendendole
così pervasive, fatue e labili da far temere che l’esternalità negativa di cui
stiamo parlando sia diventata una vera e propria malattia del giudizio; anche quando si manifesta in forma fisica,
diversa dai like internettiani: il
NYT raccontava qualche giorno fa che il presidente Americano Donald Trump si
sia così compiaciuto in TV (intervista a ABC News) dei 160.000 (?) presenti alla
cerimonia di inaugurazione del suo quadriennio (I looked over that sea of poeple and I said to myself: wow!) da
fargli proclamare che la folla convenuta fosse the biggest in history, cosa che – dice il NYT – è certamente molto
lontana dalla verità (non a caso, un paio di giorni dopo, sullo stesso
giornale, il premio Nobel Krugman, che di numeri se ne intende, parlava di embarassing small inauguration crowd). Ma
tant’è, oggi non contano più nemmeno i numeri ma la percezione degli stessi,
per quanto soggettivo o interessato possa essere il dimensionamento che se ne
dà, appunto per “creare” quella insidiosa convergenza fra il pensiero dominante
e la sua stessa rappresentazione mediatica, che costituisce, per dirla con Ilvo
Diamanti (in Dare i Numeri, di N. Pagnoncelli,
già citato su questo blog), l’illusione
reale, la percezione fatta realtà.
Certamente
la democrazia – come sarebbe di un’infrastruttura – ha anche le sue esternalità positive: fra queste, la
diffusa convinzione che ciò che è democratico sia anche – ipso facto – rispettoso dei diritti individuali, socialmente sensibile,
esente da pregiudizi, etc.
Pur
essendo anch’essa falsa, tale convinzione la considero una esternalità positiva
perché rafforza la buona percezione
della democrazia (della quale, come abbiamo visto, non riusciamo a fare a meno)
e la rende (almeno a parole) di larga accettazione (il che dovrebbe sbarrare la
strada ai suoi interessati e insidiosi nemici, almeno a quelli espliciti). Ciò
non di meno, come dicevo, questa diffusa convinzione è anch’essa falsa (né più
né meno di quella secondo la quale ciò che è largamente condiviso è cosa buona
e giusta) come dimostra ampiamente la storia. Gli esempi sono talmente tanti
che non serve farne; basterà forse dare un’occhiata a come vengono valutati nel
mondo e negli USA i primi provvedimenti di Trump, democraticamente eletto solo
qualche settimana fa.
E
allora? Forse che la democrazia diffonde solo falsità? Forse che anche tutte le
sue esternalità sono solo inganni?
Mah!
Io direi che dovremmo abituarci a considerare la democrazia per quello che è:
nient’altro che una modalità (la migliore fra quelle fino ad oggi sperimentate)
per la formazione della volontà di uno stato, senza alcuna garanzia che tale
volontà sia giusta e buona; è solo la volontà della maggioranza, e le
maggioranze (né più né meno delle minoranze) sono buone o cattive a seconda
delle volontà (più o meno coscienti) di quelli che le compongono.
Semmai,
se le vicende americane di questi tempi contengono un insegnamento (e gli USA
sono senz’altro una democrazia esemplare), è quello che, nell’età della percezione,
conta anche come si rappresentano le azioni politiche, sia quando per esse si
chiede il voto sia quando le si attua: l’esasperazione dei toni paga, in
termini di consenso (almeno per un po’).
Roma
1° febbraio 2017
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