sabato 4 febbraio 2012

Utopie?

ANTE SCRIPTUM: Mi rendo conto che questo post è un po' lungo, per il metro di un blog, che ho imparato a misurare via via che mi divertivo ad usare questa forma di dialogo con gli amici. Ma oggi a Roma c'é la neve e, come è costume di questa città (per la verità comprensibile data la rarità dell'evento), si sta a casa, quasi tutto si ferma; e così ho lasciato da parte il sano esercizio delle forbici, pensando che, forse, così spero, anche i miei quattro lettori avranno meno fretta nello socorrere queste righe.

Decrescita/ricrescita
(di Felice Celato)

La curiosità intellettuale e la gentilezza di un colto amico ci hanno consentito di leggere un piccolo volumetto di Serge Latouche sulla “concreta utopia” della decrescita, un intenso esercizio di ricalibrazione dei nostri valori economici articolata su otto magiche “R”(rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare) intese a riposizionare la nostra vita verso una “decrescita serena, conviviale e sostenibile” che risulterebbe antitetica rispetto alle “follie” del nostro oggi (Serge Latouche: Breve trattato della decrescita serena, Bollati Boringhieri).


Confesso di trovare l’utopia delle tesi suggestive di Latouche meno “concreta” di come l’economista francese la dipinge, al punto da ritenerla una utopia tout court, in realtà configgente, almeno per ora, con le aspirazioni incontenibili al benessere di tanta parte del mondo (che tuttora ne è escluso) e con le esigenze di conservazione del benessere dell’altra parte del mondo (di cui facciamo parte).


Non mi sfugge però la domanda inquietante postulata dalle tesi di Latouche: il benessere del nostro mondo è arrivato a toccare – proprio per questa parte del mondo di cui facciamo parte – un suo intrinseco limite di sostenibilità?


Non lo so. Non ho un’opinione seria al riguardo né dispongo della cultura necessaria per tali tipi di sintesi, che pure mi affascinano: per dire qualcosa al riguardo bisognerebbe possedere strumenti di lavoro e sviluppare tipi di indagine che sono al di là delle mie possibilità (chi vuol fare buone letture sul tema può prendersi anche i libri più recenti di Jeremy Rifkin).


Ma vorrei tentare di proporre, avendo riguardo a ciò che mi capita di osservare nel nostro Paese, un altro angolo di ragionamento  basato, invece che sulla decrescita, sulla ricrescita: non alludo a quella economica (cui il nostro Paese aspira disperatamente, con buona pace di Latouche) ma a quella umana che forse compendia in sé le potenzialità culturali della decrescita di Latouche, in fondo risultando più alla portata dei nostri orizzonti e, per quanto ci riguarda come comunità, più centrata sul nostro presente e sulle esigenze che questo mi pare porre con urgenza.


L’Italia sta attraversando, secondo me, un periodo molto oscuro, non solo dal punto di vista economico ma, mi pare di poter dire soprattutto, dal punto di vista umano (che vuol dire, bensì, culturale e sociologico, ma anche valoriale e morale). Mentre dal punto di vista economico “siamo declinati credendo di crescere” (Marco Revelli: Poveri noi, Einaudi), dal punto di vista politico si sono rotti i tradizionali legami coi principi della rappresentatività politica, si è incrinato il rapporto di fiducia nella capacità della classe dirigente (ove sia mai esistita in Italia) di assicurare un’ordinata diffusione del benessere, al riparo da ruberie e prepotenze, si è contratto e confuso il rapporto con la nostra stessa cultura e con la nostra identità nazionale, nemmeno l’autorevolezza morale della Chiesa ha resistito al deterioramento; ma – quel che è ancora più grave – si va sfarinando, così mi pare, anche il collante umano della nostra società.


Sul piano sociologico siamo diventati, come dice De Rita (Rapporto Censis 2011), “gente che vive sola ma senza solitudine”, “prigioniera di riferimenti puramente egoistici e prevalentemente emotivi”, “incapaci di rapportarci a una qualsiasi lunga durata, sociale e magari esistenziale”, “subalterni alla dimensione mediatica dei processi in atto, subendone in modo inerte il linguaggio”. L’invidia sociale (quel sentimento oscuro che ci fa sembrare individualmente e micro-collettivamente desiderosi del male altrui, quasi come se fosse lo strumento consolatorio del nostro scontento), la sfiducia reciproca condita col rancore sociale che ci spinge ad invocare ad ogni piè sospinto le soluzioni più emotive ed illiberali, l’inimicizia sistematica insaporita col disprezzo dell’altrui opinione o delle altrui culture sembrano essere diventati la cifra del nostro convivere, soprattutto in questi tempi di intensa contrazione delle prospettive economiche. Nel contempo, tutti ci atteggiamo ad inesorabili Catoni delle altrui mancanze (vere o presunte che siano), pur essendo tutti o quasi almeno disordinati cittadini propensi alla protezione del nostro particulare di Guicciardiniana memoria, persino nel rapporto con i doveri minimali (pagare le tasse, non evadere gli obblighi contributivi, non parcheggiare in seconda fila,etc) e mentre abbiamo sviluppato una fattuale indifferenza alle diffuse e ben gravi illegalità che da tempo caratterizzano la nostra vita sociale ed economica.


Forse l’elenco può apparire amaro più di quanto non siamo disponibili a riconoscere (e può darsi che sia o appaia esagerata, anche se sono pronto a declinare esempi concreti per ciascuno dei “mali” enunciati). Ma credo che, di fondo, la sintesi sia giusta e che ognuno possa riconoscervi se non tutti almeno molti dei tratti dominanti del nostro convivere ( e anche, ovviamente, dei nostri linguaggi). E con questi “sentimenti” fra un anno affronteremo “il ritorno della politica”.


Di fronte a ciò – ed è questo l’angolo di riflessione che suggerivo all’inizio, forse anch’esso un’utopia ma a portata di mano – la via che mi sembra da desiderare non è tanto quella della decrescita economica ma quello della ricrescita umana, che ben può comportare la revisione critica di molti dei “valori” economici cui Latouche prescrive le sue otto “R”, ma che, soprattutto, può valere come operazione di ricostruzione di una accettabile ecologia della convivenza.


Non so se anche da noi, come scrive Salvatore Natoli nel suo (molto tosto) libro Il buon uso del mondo (Mondadori), si comincia a sentire di nuovo il bisogno delle virtù; né voglio richiamare a tutti i valori della visione cattolica della vita sociale, magistralmente compendiati ed approfonditi da Benedetto XVI in quella straordinaria enciclica che è Caritas in veritate (un testo grandioso che ci farebbe, laici o credenti, assai bene rileggere più volte); né voglio ancora – per non apparire “clericale” – tornare a citare l’inno alla carità (o all’amore, come usa dire oggi per sembrare più laici) di san Paolo (I Cor. 13), che pure ha una valenza non solo religiosa (anzi, non resisto e ne riporto qualche riga: l’amore è paziente, è benigno l’amore, non è invidioso l’amore, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità).


Mi pare però certo che se tutti ci convincessimo, come fa Bernard Rieux, l’eroe laico de La peste del super-laico Albert Camus, che “ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare”; se ci convincessimo che la moderazione dei giudizi non è flaccidità dell’animo (il vituperato “buonismo”); che, anzi, è un valore (o, se volete, una virtù anche civile non solo personale) essere semplicemente “buoni”(non “fessi” né irresponsabili, ma semplicemente “buoni”, generosi, magnanimi, aperti); che comprendere (e,sì, perdonare) è più nobile del condannare (e assai più intelligente che condannare sommariamente); che “il rilancio delle virtù civili” parte “dal profondo della nostra coscienza e non da semplici pulsioni individuali” (G. De Rita- A. Galdo : L’eclissi della borghesia, Laterza); se riuscissimo a fare tutto ciò attingendo alle risorse culturali delle nostre migliori radici, non avremmo fatto ben più, con questa ricrescita della nostra umanità, che non con una improbabile decrescita economica? E senza postulare il consenso degli altri, ma partendo solo da noi stessi.




3/4 febbraio 2012

Nessun commento:

Posta un commento