mercoledì 17 gennaio 2018

Le parole "choc"

Identità
(di Felice Celato)
Le “parole choc” [credo che in Italia, nei “commenti” di stampa e TV, non ci sia parola più abusata di questo termine franco-inglese (nell’alternativa choc/shock) che connota di volta in volta parole, immagini, notizie, opinioni, comportamenti che si vorrebbero definire urticanti o scandalosi; e l’abuso, segno inequivocabile di povertà lessicale e culturale, inevitabilmente mi porta all’assonanza solo fonetica con l’italianissimo “sciocco” che ben si attaglia, invece, all’abusante lessicale del caso]; le “parole choc”, dicevo, del candidato del centrodestra alla regione Lombardia sulla necessità di tutelare la razza bianca italica sono state (molto opportunamente e prontamente) corrette; e si è detto che in realtà ci si riferiva alla tutela dell’identità nazionale che si suppone messa in questione dall’immigrazione (come al solito) selvaggia o sregolata o incontrollata.
Bene: un infortunio lessicale può accadere, specie a chi è nuovo in ruoli così esposti all’attenzione di tutti, tanto più in tempi così....pensosi e scarsi di parole. Ma la correzione mi ha suscitato una domanda: qual è la nostra identità? Di noi italiani, intendo.
Già Amartya Sen aveva provveduto (in Identità e violenza, Laterza, 2008) a mettere in questione il concetto identitario nei mondi moderni (e in ottica globale), argomentando sul concetto di “identità plurima” di cui abbiamo fatto cenno altre volte; ma, anni fa, anche  Ernesto Galli della Loggia aveva dedicato un volumetto all’analisi storica e socio-politica di una presunta identità italiana (L’identità Italiana, il Mulino ed., 2010), dove, in fondo, partendo dalle lunghe vicende storiche del nostro paese (ed anche dalla sua articolazione geografica), giunge ad una conclusione che va al di là della semplice percezione esterna: se si tiene presente.....che la vicenda di frantumazione statuale e di dominio straniero si è inserita nella già più volte notata eccezionale diversità dei quadri geo-ambientali della penisola, non meraviglia che specialmente ad occhi non italiani il nostro sia apparso un paese che in realtà non esiste, un’identità che non c’è perché al suo posto ce ne sono molte, anzi infinite. Plurime, appunto, direbbe Amartya Sen.
Del resto, anche mettendosi semplicemente in una prospettiva esperienziale, chi potrebbe trovare dominanti tracce di una comune identità nazionale fra, chessò, un siciliano ed un piemontese, un napoletano ed un trentino, un veneto ed un romano o un calabrese ed un romagnolo? Persino gli idiomi - se non ci fosse stata, in tempi relativamente recentil’unificazione linguistica indotta dal linguaggio televisivo - sarebbero risultati reciprocamente incomprensibili; e il ricorso a quella  koinè linguistica che è stato il toscano, se ci si fa caso ascoltandoci reciprocamente, tuttora rivela qua e là le asperità dell’uso non corrente (e non è solo questione di congiuntivi!). Non parliamo poi delle abitudini di vita o delle modalità di concepire quel meccanismo di governo del comune recinto che è la politica; o dei perimetri istintivi del nostro pensare noi stessi, talora di natura addirittura comunale. Non a caso proprio coloro che oggi parlano di necessità di proteggere l’identità nazionale sono quelli che hanno solo qualche anno fa rivendicato una dimensione padana del loro essere Italiani, magari in contrapposizione con la presunta identità “terrona” dei loro concittadini meridionali.
Si dirà, non senza ragioni: ma quell’identità nazionale cui ci si riferiva (magari infelicemente), in fondo è quella propria di un paese occidentale che, con tutte le sue diversità, si riconosce pur sempre nei valori lato sensu occidentali! E dunque il riferimento alla necessità di tutela dell’identità nazionale (non certo della razza bianca, magari ariana!) mira alla protezione proprio di tali valori, messi in discussione dal pericolo di “un’islamizzazione strisciante” della nostra società! E, in un accesso di cultura, il contestatore del nostro ragionare potrebbe citare al riguardo il non italiano Houellebecq, col suo Sottomissione (Bompiani, 2015) di cui, pure, abbiamo parlato brevemente (nel post Letture del 2 febbraio 2015).
Bene: se questo fosse stato l’approccio, innegabilmente il tema avrebbe avuto una…..rispettabilità superiore. Ma, diciamolo francamente, se questa prospettiva appare densa di problemi irrisolti (o magari solo elusi con espedienti retorici) la colpa non è dell’immigrazione (che in fondo fa solo da catalizzatore alla crisi dell’Europa e della sua “incompetenza morale”) ma proprio nostra (di noi europei e quindi italiani), come era ben argomentato in un articolo di Bret Stephens (premio Pulitzer nel 2013, editorialista del WSJ e già direttore del Jerusalem Post) che avevo qui segnalato qualche tempo fa (post: Radici del 21 ottobre 2015) e al quale, per brevità, rimando.
Alla fine di questa breve riflessione, mi resta una domanda: sarà mai possibile discutere di ciò senza sparare imbecillità (necessitose di pronta correzione)?
Roma 17 gennaio 2018
















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