Identità
(di Felice Celato)
Le “parole choc” [credo che in Italia, nei
“commenti” di stampa e TV, non ci sia parola più abusata di questo termine
franco-inglese (nell’alternativa choc/shock)
che connota di volta in volta parole, immagini, notizie, opinioni,
comportamenti che si vorrebbero definire urticanti o scandalosi; e l’abuso,
segno inequivocabile di povertà lessicale e culturale, inevitabilmente mi porta
all’assonanza solo fonetica con l’italianissimo “sciocco” che ben si attaglia,
invece, all’abusante lessicale del caso]; le “parole choc”, dicevo, del candidato del centrodestra alla regione
Lombardia sulla necessità di tutelare la razza bianca italica sono state (molto
opportunamente e prontamente) corrette; e si è detto che in realtà ci si
riferiva alla tutela dell’identità nazionale che si suppone messa in questione
dall’immigrazione (come al solito) selvaggia o sregolata o incontrollata.
Bene: un infortunio
lessicale può accadere, specie a chi è nuovo in ruoli così esposti all’attenzione
di tutti, tanto più in tempi così....pensosi e scarsi di parole. Ma la
correzione mi ha suscitato una domanda: qual è la nostra identità? Di noi
italiani, intendo.
Già Amartya Sen aveva
provveduto (in Identità e violenza,
Laterza, 2008) a mettere in questione il concetto identitario nei mondi moderni
(e in ottica globale), argomentando sul concetto di “identità plurima” di cui
abbiamo fatto cenno altre volte; ma, anni fa, anche Ernesto Galli della Loggia aveva dedicato un
volumetto all’analisi storica e socio-politica di una presunta identità
italiana (L’identità Italiana, il Mulino ed., 2010), dove, in fondo,
partendo dalle lunghe vicende storiche del nostro paese (ed anche dalla sua
articolazione geografica), giunge ad una conclusione che va al di là della
semplice percezione esterna: se si tiene presente.....che la vicenda di
frantumazione statuale e di dominio straniero si è inserita nella già più volte
notata eccezionale diversità dei quadri geo-ambientali della penisola, non
meraviglia che specialmente ad occhi non italiani il nostro sia apparso un
paese che in realtà non esiste, un’identità che non c’è perché al suo posto ce
ne sono molte, anzi infinite. Plurime, appunto, direbbe Amartya Sen.
Del resto, anche
mettendosi semplicemente in una prospettiva esperienziale, chi potrebbe trovare dominanti tracce di una comune identità nazionale fra, chessò, un siciliano
ed un piemontese, un napoletano ed un trentino, un veneto ed un romano o un
calabrese ed un romagnolo? Persino gli idiomi - se non ci fosse stata, in tempi
relativamente recenti, l’unificazione
linguistica indotta dal linguaggio televisivo - sarebbero risultati
reciprocamente incomprensibili; e il ricorso a quella koinè linguistica che è stato il
toscano, se ci si fa caso ascoltandoci reciprocamente, tuttora rivela qua e là
le asperità dell’uso non corrente (e non è solo questione di congiuntivi!). Non parliamo poi delle abitudini di vita o
delle modalità di concepire quel meccanismo di governo del comune recinto che è
la politica; o dei perimetri istintivi del nostro pensare noi stessi, talora di
natura addirittura comunale. Non a caso proprio coloro che oggi parlano di
necessità di proteggere l’identità nazionale sono quelli che hanno solo qualche
anno fa rivendicato una dimensione padana del loro essere Italiani, magari in
contrapposizione con la presunta identità “terrona” dei loro concittadini
meridionali.
Si dirà, non senza
ragioni: ma quell’identità nazionale cui ci si riferiva (magari infelicemente),
in fondo è quella propria di un paese occidentale che, con tutte le sue
diversità, si riconosce pur sempre nei valori lato sensu occidentali! E
dunque il riferimento alla necessità di tutela dell’identità nazionale (non certo
della razza bianca, magari ariana!) mira alla protezione proprio di tali
valori, messi in discussione dal pericolo di “un’islamizzazione strisciante”
della nostra società! E, in un accesso di cultura, il contestatore del nostro
ragionare potrebbe citare al riguardo il non italiano Houellebecq, col suo Sottomissione (Bompiani, 2015) di cui, pure,
abbiamo parlato brevemente (nel post Letture
del 2 febbraio 2015).
Bene: se questo
fosse stato l’approccio, innegabilmente il tema avrebbe avuto
una…..rispettabilità superiore. Ma, diciamolo francamente, se questa
prospettiva appare densa di problemi irrisolti (o magari solo elusi con
espedienti retorici) la colpa non è dell’immigrazione (che in fondo fa solo da
catalizzatore alla crisi dell’Europa e della sua “incompetenza morale”) ma proprio nostra (di noi europei e quindi
italiani), come era ben argomentato in un articolo
di Bret Stephens (premio Pulitzer nel 2013,
editorialista del WSJ e già direttore del Jerusalem
Post) che avevo qui segnalato qualche tempo fa (post: Radici del 21 ottobre 2015) e al
quale, per brevità, rimando.
Alla
fine di questa breve riflessione, mi resta una domanda: sarà mai possibile
discutere di ciò senza sparare imbecillità (necessitose di pronta correzione)?
Roma
17 gennaio 2018
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