L’imbecillità è
necessaria alla democrazia?
(di Felice Celato)
Facciamo tre premesse prima di inoltrarci in un tema
scivoloso: (1) l’imbecillità (dal latino imbecillitas,
forse da in e bacillum, cioè senza bastone, per dire debole) è un indebolimento ovvero uno scarso sviluppo
dell’intelligenza, una insufficienza mentale di medio grado. E l’imbecille
è chi, per difetto naturale o per età o
per malattia, è menomato nelle facoltà mentali e psichiche [ dal
Vocabolario Treccani]; (2) Come ben detto dal filosofo Maurizio Ferraris (si
veda il volume L’imbecillità è una cosa
seria, qui segnalato in Letture, post
del 1° dicembre 2016) l’imbecillità non è
una cosa per pochi né, soprattutto, per gli altri (e in effetti: è difficile dare dell’imbecille a qualcuno
senza che qualcun altro ci inchiodi, e con validi motivi, alla nostra
imbecillità); (3) dunque nessuno è autorizzato a chiamarsene fuori,
guardandosi indietro; tant’è – esemplifica Ferraris – che non mancano esempi di
magari transitoria imbecillità di stimati pensatori. E tuttavia forse va
riconosciuto (è sempre Ferraris che scrive) che l’imbecillità è il proprio della modernità perché con le potenzialità
espressive offerte dal moderno, lo stupido si rivela meglio che in qualunque
altra epoca più raccolta e silenziosa.
Premesso ciò, vengo alla domanda che da qualche tempo mi
frulla in mente, devo dire potentemente eccitata dal periodo pre-elettorale (ma
anche da qualche incursione sui tempi correnti di qualche altro paese):
l’imbecillità è diventata un essenziale requisito
di sistema per la democrazia? Beninteso: mi riferisco, qui, alla imbecillità
degli elettori prima ancora che a quella degli eletti (ma, se ci pensate bene,
ad imbecillità degli elettori non può che corrispondere l’imbecillità
dell’eletto, salvo casi eccezionali o, più frequentemente, di totale malafede
dell’eletto).
Mi spiego meglio: provate a raffrontare la natura, la vastità
e la profondità dei nostri problemi (mi riferisco qui al contesto Italiano, hic et nunc) con la futilità,
l’inutilità, anzi la tafazziana
dannosità, delle ricette che vengono propinate agli elettori. Dietro a ciò, non
c’è forse la certezza che proprio quella futilità, quella inutilità, anzi
quella tafazziana dannosità, possano
essere la chiave dell’agognato successo elettorale? Non avete l’impressione che
si dia per scontato (per carità, non senza fondamento nel reale sperimentato),
che solo propalando delle autentiche baggianate (dalla doppia valuta al reddito
per tutti senza prodotto, dalla abolizione dell’obbligo di vaccinazione a
quella della legge Fornero, etc. etc.) si possa conquistare il favore dell’
elettorato? E che necessariamente, quindi, occorra supporre questo elettorato
costituito da una manica di imbecilli,
senza alcuna capacità di discernimento e di senso critico, ovvero, (volendo
dare all’ipotesi un flavour
DeRitano), accecata da un distruttivo rancore che ne ottunde la ragione? E non
nasce, tutto ciò, dall’assunto che la moderna democrazia (suffragio universale,
libertà di opinione e di stampa, elevata connotazione mediatica della società,
etc) naturalmente postula l’esistenza di una larga prateria di imbecillità da
cavalcare in lungo e in largo come fattore
fondamentale del successo politico? Senza una dose più o meno grande di diffusa
imbecillità si potrebbe aspirare con successo al governo di un paese evitando
di dire sciocchezze?
In quest’ottica, se ci si volesse sottrarre anche ad uno solo
dei corni di quella ambigua eziologia (o
l’imbecillità pura degli elettori o un loro accecato rancore che tuttavia li
rende imbecilli) apparentemente nessuno potrebbe fondatamente aspirare al
governo del paese; nessuno ascolterebbe, nessuno crederebbe, nessuno
attribuirebbe valore nemmeno ai ragionamenti più piani. Provate ad immaginare,
tanto per fare un esempio banale ma estremamente realistico: se l’ormai monotona
rivisitazione dell’eterno problema
del debito pubblico (in fondo anche facile da capire, come dimostrano
chiaramente Alesina e Giavazzi sul Corriere
della sera di ieri) fosse proposta da un politico ad un qualsiasi talk-show magari in contraddittorio
(meglio: contraurlatorio) con,
chessò, un feroce avversatore della legge
Fornero; chi raccoglierebbe più consenso? E poiché il consenso è lo
strumento della democrazia…. occorrerebbe (amaramente) concludere: nullum votum sine sollicitatione
imbecillitatis.
Il fatto che, per fortuna, “disturba” questa conclusione è,
però, che fra i tanti difetti di noi italiani (che mi pare di vedere con grande
chiarezza) non c’è mai stato quello della scarsa intelligenza (magari se
dimentichiamo l’ormai lontano ventennio)….. E allora? Forse mi sbaglio:
vedremo.
Roma 12 gennaio 2018
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