Check-up
(di Felice Celato)
Come ogni anno, il primo venerdì di dicembre è dedicato al Censis ed al suo annuale check-up sullo stato di salute della nostra società, giunto ormai alla sua 53° edizione.
E come ogni anno, il corposo volume del Rapporto merita una lettura lenta e per capitoli, che non può essere fatta se non con molto tempo a diposizione e capacità di lettura meditata dell’enorme congerie di dati messi a disposizione di chi abbia voglia di capire in dettaglio. Come ogni anno, le relazioni che accompagnano la presentazione del Rapporto ne tracciano una sintesi di grande impatto e ricca di spunti (e di rimandi) della quale, forse, si può capire il senso anche restando, come farò nelle prossime righe, sull’impressione generale che ho ricavato ascoltandole, senza avventurarmi nella solita ricerca delle parole-chiave con le quali come sempre il Censis caratterizza ogni periodo in esame. Del resto domani i giornali saranno pieni di stralci (auspicabilmente non distorsivi e, forse, significativi) e di citazioni dei numeri (speriamo non sbagliate) sia del Rapporto che delle sua Considerazioni generali, sicché ognuno potrà farsene un’idea (speriamo ben fondata), magari nell’attesa di leggerlo nei dettagli.
Dico subito che, stavolta, il Rapporto del Censis mi è parso particolarmente scorato (come forse lo siamo in molti), ancorché – come ogni anno da qualche tempo – si sforzi di annaffiare e concimare i deboli segni di una resilienza sociale che mostra tutta la sua ripiegata debolezza. E certamente non a caso, il Censis li chiama – questi deboli segni di resilienza – le piastre di sostegno (cui ancorare non una nuova fase di crescita, ma almeno un cambio di rotta rispetto alla direzione attuale, senza grandi intenzioni di una risalita decisa verso l’alto) e i muretti in pietra a secco (una multiforme messa in opera di strutture e infrastrutture di contenimento dei fenomeni erosivi generate dalla difesa solitaria di singoli, grazie a processi temporanei tempestivi di appoggio); ma non nega che arrivare ad immaginare che nella reazione alla regressione la dimensione strutturale – le piastre – o quella di provvisorio sostegno – i muretti – possano diventare le basi di un ritorno ad una dimensione sociale e collettiva è un errore di prospettiva.
L’Italia che esce fuori dal Rapporto, è senza dubbio un paese gravemente ammalato; e di questo, per la verità, ne eravamo tutti coscienti, anche senza dover ripercorrere col pensiero i tristi viali della sua decozione politica che è parte della malattia (e sulla quale, peraltro, le Considerazioni generali del Censis si soffermano brevemente ma con parole nette); forse per rendersene conto basta solo applicare, all’individuale esperienza del nostro contesto sociologico, un tradizionale insegnamento interpretativo del Censis (la società la capisci da quello che spera, individualmente e collettivamente) per misurare il grado di stanchezza regressiva della nostra società.
Ma, nonostante tutto ciò – è in fondo questo il messaggio di quest’anno del Censis – l’appiattimento e la cattiveria sociale, le diseguaglianze affrontate senza investimenti e senza progetti di crescita, la lotta anti-sistema come base di responsabilità politico-istituzionale non sono, né possono essere, direzioni di marcia di medio-lungo periodo… La consapevolezza che la sfiducia sembra prevalere sulla speranza, che lo spirito di adattamento inerziale non basta più, che il processo di sviluppo sociale si è interrotto, che la politica ha fallito, non è abbastanza per offuscare lo sguardo e il bisogno di reagire e guardare avanti che la società esprime. I segnali di contrapposizione a un gioco e a un racconto al ribasso sono ancora deboli. E non vale alcuna promessa per il domani, se non che nella reazione al vortice della crisi e nell’avvio di nuovi e diversi processi di consolidamento dello sviluppo il nostro popolo si sta aprendo alla speranza e, se così sarà, la storia gli lascerà strada.
Roma, 6 dicembre 2019
NB Per ragioni tecniche questo post del 6 12 è stato cancellato e reinserito in data 9 12
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