Tre parole desuete
(di
Felice Celato)
Il
distacco che il riposo porta naturalmente con sé, l’impegno di qualche lettura
“tosta” sul piano intellettuale e la lontananza dalle beghe quotidiane del
nostro paese e dalle ansie che esse creano a chi cerca di immaginare il futuro
dei nostri figli, mi rendono, alla ripresa delle attività, forse un po’ troppo
“filosofo”.
Ma,
provando a rimettere ordine fra le tante cose che mi pare ci servano, a questa
svolta del nostro presente che ci immette verso un impegnativo futuro, ho
tentato di individuare, dal mio punto di vista, le “matrici” culturali e
spirituali che possono schiuderci una fondata speranza nel futuro, dopo tanti
mesi di affanni quasi disperati. E mi
pare di averle trovate in tre parole-guida, forse un po’ desuete, che, insieme,
racchiudono, ad un tempo, il senso di ciò che ci è mancato per tanti anni ed un
progetto di “rigenerazione” culturale che, da sola, ove veramente si
determinasse, darebbe la chiave per definire tutte le tante cose che dobbiamo
fare per “arrestare il declino” e “ritrovare la strada che abbiamo smarrito”.
Le
tre parole-guida sono: verità, perdono e fatica. Provo a declinarle meglio, per
non guadagnarmi – lasciatemelo dire: immeritatamente – l’accusa di scarsa
concretezza.
La
verità (qui, ovviamente, con la lettera minuscola): l’ho scritto tante
volte su questo blog e su altri
appunti che ci siamo scambiati, gli italiani hanno bisogno di una dura
operazione di verità (che ancora non c’è stata) sulle condizioni del Paese,
sulle ragioni del suo innegabile declino, sulle origini del suo indebitamento e
della sua incongrua, apparente agiatezza (dove c’è ancora), sulle conseguenze
di ogni ulteriore ritardo nel porre mano a ciò che serve, sulla intensità e
durata dello sforzo che è necessario. Edulcorare le analisi, indorare le
pillole, negare l’evidenza, imbastire vuote retoriche, raccontare
ciarlatanerie, non solo non serve, ma sarebbe esiziale per l'Italia (quand’anche regalasse
una tragica vittoria elettorale).
Ma
questa operazione di autocoscienza non sarebbe fortunata se non si congiungesse
ad un radicale, reciproco perdono (politico): basta scorrere con senso
della realtà gli ultimi 30 anni di storia politica italiana per rendersi conto
dell’alternata vicenda delle responsabilità e dell’intrecciata trama delle
corresponsabilità nella gestione del Paese, nella coltivazione e diffusione di
un’autorappresentazione ingannatrice, nell’alimentazione di una sub-cultura
mediatizzata fatta di false immagini di noi stessi e dei nostri problemi, nella
dissennata fornitura di vuote retoriche. Se non poniamo una pietra sopra sul
cumulo dei reciproci errori, non credo che ne usciremo sani; come i capponi di
Renzo di manzoniana memoria ci affanneremmo a beccarci reciprocamente mentre
già bolle la pentola per il brodo, sia esso destinato al ristoro dei creditori
o al breve banchetto di qualche arrabbiato populista.
Infine,
la fatica, antica compagna del nostro “scheletro contadino” di cui parla
De Rita: solo sottomettendoci a fatica e sudore possiamo aspirare ad un non
lontano ristoro. Che poi la fatica debba essere proporzionata alle forze (in
tutti i sensi!) è fin troppo ovvio: nessuno deve morire tirando il carro per
gli altri, nessuno deve essere esentato dal suo turno di giogo, magari più
lungo per chi ha più riserve di energia da consumare. Questa della fatica è la
cosa più difficile da richiedere, soprattutto a chi si sente già stanco; essa,
però, insieme al perdono, è la chiave che distingue ogni autentica proposta
politica dal clamore dei populismi, che, di solito, si alimentano di confuse verità
ma, soprattutto, di rancori e di promesse di facili soluzioni (che non
esistono, nella situazione data).
Alla
vigilia del ritorno in campo della politica, tanto sospirato (da tutti i
politici) e (a ragione) temuto da molti, non so proprio chi potrebbe farsi
carico di un “programma” (qualsiasi cosa questo voglia dire, oggi) ispirato
alle tre desuete parole su cui abbiamo ragionato. Ma, delle volte (Gen. 18,
20-32), bastano pochi “giusti” per salvare una città (e non ha nessuna
importanza la loro età).
Roma,
26 agosto 2012
Proverei ad aggiungere la parola rigenerazione, in una duplice accezione:
RispondiElimina1) innanzitutto una accezione piu' letterale, perche' dobbiamo provare un nuovo inizio dopo una stagione lunga di stasi;
2) poi, in una accezione scomposta, come ri-generazione, lasciando più spazio ed autonomia ai giovani (che pero' tale spazio devono fare in modo di conquistare e meritare. Ed e' sopratttutto alla generazione dei cinquantenni (sono tra questi) che tocca un atto di generosita': dovremo passare rapidamente noi la mano ai più giovani, senza far fare a loro l'anticamera di decenni che e' toccata a noi.