Ri-letture
(di
Felice Celato)
Questa nota sarebbe troppo lunga per il "linguaggio" dei post. Così ho deciso di dividerla in due parti: la prima (in blu) è una segnalazione di lettura, come spesso ne faccio; la seconda (in rosso) è nient'altro che il seguito di discussioni fra amici sul tema sollevato dal post del 5 aprile 2012 Ecologia della convivenza/2, su questo blog.
Alla
luce di una lettura recente che per me è stata molto importante (L’arazzo
rovesciato, di G. Cucci e A.Monda) ho riletto con grande interesse il libro di Hannah Arendt, La
banalità del male (in edizione Feltrinelli, pessima per dimensione e
qualità dei caratteri), una lunga e dettagliata relazione-riflessione che la
filosofa ebrea tedesca scrisse nel 1963-64, dopo aver assistito, per conto
della rivista americana The New Yorker, al processo ad Adolf
Eichmann che si svolse a Gerusalemme nel 1961, dopo il rapimento e la cattura
del criminale nazista, pensati, disposti ed attuati da Ben Gurion.
Il
libro affronta criticamente le molte questioni giuridiche (natura del processo,
normativa di riferimento, legittimazione dei giudici, qualità e mezzi della
difesa, etc.) che ben si potevano porre, come anche si posero per il processo
di Norimberga; ma, confesso, che questo tipo di argomenti non ha attratto più
di tanto la mia attenzione, forse a causa di una pre-esistente convinzione
circa la “ineludibilità” storica del processo dei vincitori contro i vinti (soprattutto
quando gli eventi siano stati della natura e della dimensione di quelli della
seconda guerra mondiale) anche a rischio di gravi forzature giuridiche, forse
inevitabili quando ci si spinge a giuridicizzare la storia (se avesse vinto il cosiddetto asse Roma-Berlino-Tokio, che cosa si sarebbe detto di Hiroshima e
Nagasaki?).
Ben
più centrale ed interessante per me (nel
contesto delle riflessioni che ho avviato da qualche tempo) è invece l’analisi
storica e psicologica che la Arendt svolge, con dovizia di notazioni, sulla
figura e le azioni di Eichmann, traendone il ritratto umano che il titolo del
libro ben lascia intendere: di fronte all’enormità del male compiuto (e, in
parte, riconosciuto) la scialba figura, la semplice e anche fragile psicologia,
la relativa amoralità e l’elementare cultura dell’uomo Eichmann, macinate nella
morsa della ubriacante potenza del condizionamento ideologico, ci restituiscono
l’impressione sconvolgente della banalità
del male, cioè non solo della sua intrinseca alterità rispetto ad ogni
concetto di umana grandezza (anche nella
perversità), ma anche di futilità, di avvilente piattezza del suoi meccanismi
funzionali e dei suoi fondamenti psicologici. Una banalità, appunto, che, nel caso specifico, può talora creare
l’impressione di una enorme sproporzione fra il male commesso (o, meglio,
consentito, appoggiato) e la materialità delle azioni poste concretamente in
essere, nel contesto dato.
Che
il concetto di banalità possa associarsi, come voleva uno degli amici che hanno
con me discusso del tema, al concetto di umana mediocrità del protagonista del
male, non mi scandalizza affatto, anzi, direi che in fondo mi trova d’accordo
(e l’ Eichmann della Arendt ce lo conferma).
Ma il tema si fa scivoloso quando, sempre sul piano etico, si riflette più a
fondo sull’intrinseco valore comparativo ovvero dispregiativo del concetto di
mediocrità: senza tema di apparire cinico (quale sicuramente non mi sento),
direi che l’esperienza del mondo mi ha portato a ritenere fondato un aforisma
che ho spesso in mente (mi pare fosse di Bonhoeffer): basta essere un uomo per essere un pover’uomo. Mi è capitato troppo
spesso di imbattermi in azioni “mediocri” di uomini ritenuti “grandi” e in
azioni ”grandi” di uomini ritenuti “mediocri” per non avere presente che la
“povertà” dell’uomo è connaturata al suo
essere fatto di un impasto di fango, talora (fortunatamente, potrebbe dire un
laico) rischiarata da una coscienza critica viva e vigilante, ovvero (provvidenzialmente,
direbbe un credente) dal soffio dello Spirito.
Se
ne potrebbero trovare molti di esempi (storici e letterari, da san Pietro all’Innominato
di manzoniana memoria) in cui il confine fra il male e il bene (o,
inversamente, fra il bene e il male) viene varcato dalla stessa persona
(“grande” o “mediocre” che sia stata) per effetto di un sussulto improvviso (o,
al contrario, di un temporaneo obnubilamento) della vigilanza critica (la desta
consapevolezza, l’autentico, faticoso “strumento” del discernimento,
soprattutto in ambienti fortemente ideologizzati o anche solo sottoposti a
forti pressioni ambientali o mediatiche), ovvero per effetto di circostanze o
di sopravvenienze, siano queste di natura casuale o “provvidenziale”, come
potrei dire da credente, o come fu, appunto nella vicenda dell’Innominato, la
famosa frase di Lucia “Dio perdona tante
cose per un’opera di misericordia”, che risuonò a lungo nella notte
dell’Innominato.
Due
considerazioni ancora, tratte dal senso delle discussioni in materia:
La
prima: è del tutto chiaro che le considerazioni che precedono non hanno
nulla a che fare col profilo giuridico degli atti dell’uomo, muovendosi, esse,
sul piano meramente etico; sicchè non ha nessun senso eccepire che la loro
evangelica e logica conseguenza (“Non
giudicare”) sarebbe, per così dire, eversiva, quasi negazionista delle
esigenze di giustizia legale. Ed infatti, personalmente, come accaduto a moltissimi
del resto, non mi sorprende affatto (e men che meno mi scandalizza) che
Eichmann sia stato condannato dal Tribunale di Gerusalemme, qualsiasi possano
essere state le pecche della procedura giuridica adottata.
La
seconda: l’apparente “riduzionismo etico” del ragionamento implicato dalle
considerazioni svolte è un vero non-senso: ciò che è evidentemente
“riduzionista” e arbitrariamente semplificatorio è proprio il ritenere che
esistano, in natura, uomini (sempre) buoni e uomini (sempre) cattivi (ovvero
sempre “grandi” e sempre “mediocri”), per modo che non avrebbe senso
investigare nelle profondità dell’animo umano intenzioni, coscienze,
fraintendimenti, riserve mentali, condizionamenti ambientali o ideologici,
debolezze intellettuali, etc., prima di trarre (se proprio ci pare di non
poterne fare a meno, come invece sarebbe saggio) giudizi morali.
In
conclusione (torno a citare L’arazzo
rovesciato) non è ovviamente in questione (sempre sul piano etico) la differenza fra bene e male ma la presunta
dicotomia fra l’uomo peccatore e l’uomo (che si crede) giusto.
Orbetello,
20 agosto 2012
Resta pero' vero che esiste anche una ostinazione del male, una pervicacia testarda nel perseguimento di obiettivi marcatamente sbagliati. Da Franti a Don Rodrigo, insomma, la cattiveria allo stato puro esiste, e stupisce per la sua granitica coerenza. Quello che più amareggia e' quanta parte di cattiveria pura si sia insediata nella vita pubblica del nostro Paese.
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