Polifonemi
(di
Felice Celato)
Fra
le tante cose che questo paese folle sta disperdendo di sé (la sua vitalità, la
sua gioia di vivere in una terra meravigliosa previlegiata anche dal sole, la
sua solidarietà antica, la sua laboriosità ingegnosa, la sua tolleranza, la stessa
pasta umana dei suoi abitanti, la loro capacità di adattarsi, la loro
indulgenza, starei per dire anche la loro misericordia) ce n’è una che forse
sfugge alla percezione dei più perché il disperdimento si realizza in maniera
subdola e strisciante, con la complicità incosciente di tutti.
Stiamo
lentamente uccidendo (disperdendo) la nostra lingua. Non mi riferisco però alla
sua purezza lessicale, né ho in mente le pruderies
francesi che aborriscono le contaminazioni e si ostinano a chiamare ordinateur quello che in tutto il mondo
si chiama computer: se l’avessimo
tutelata questa purezza lessicale oggi parleremmo ancora la lingua di Cicerone
e Dante avrebbe scritto la sua Divina Commedia in latino! Non è a questo che mi
riferisco (tanto più perché forse io sono proprio incline magari all’abuso di
contaminazioni!). L’uccisione della nostra lingua ha una natura più profonda, perché
affonda le sue radici in una materiale corruzione semantica che ci porta,
lentamente, alla scissione fra significati e significanti. Stiamo diventando
dei creatori di vuoti polifonemi (non cercate questa parola sul vocabolario
perché non c’è; l’ho “inventata” io pensando ai fonemi – suoni linguistici
elementari ed astratti – cui noi stiamo togliendo la caratteristica
dell’elementarità, componendoli in strutture poli-foniche, tuttavia egualmente
astratte, cioè prive di autonomo significato o piene di un significato del
tutto confuso, spesso arbitrario). E la politica, col suo linguaggio pervasivo e
fazioso, è la palestra in cui si sfornano (sarebbe meglio dire: sformano)
parole nuove od antiche cui si legano significati esoterici, fatti di
allusività faziose e maligne, basate sulla capacità di queste nuove od antiche
parole di radicarsi nel linguaggio comune, con tutto il loro patrimonio di
giudicante significanza che si trasmette, attraverso i media, al linguaggio “comune” contaminandolo e corrompendolo
appunto semanticamente e rendendolo funzionale non alla comprensione ma al
giudizio pre-cognitivo.
Gli
esempi che si possono fare sono tanti e le vicende di questi tempi confusi ci
aiuterebbero ad elencarli: da “destra” e “sinistra”(non ostante il loro uso
quotidiano e comune, al significato “vero” di queste parole sono state dedicate
pagine e pagine di non concordi opinioni), da “progressista” a “conservatore”,
da “laico” a “clericale”, sono tante le parole che hanno perduto gran parte del
loro significato ma che tuttavia rimangono nell’armamentario polemico e
retorico a rappresentare etichette positive o negative a seconda dei punti di
vista, a condannare o promuovere le altrui o le nostre opinioni. Ma qui mi
vorrei soffermare su una parola che, “nel teatrino della politica” (altro
polifonema polemico di facile presa!), è diventata un riflesso quasi pavloviano con cui etichettiamo (quando
intendiamo avversarli) i tentativi di accordo fra le parti, che in altri tempi avrebbero
costituito il sale della politica: la parola è “inciucio”, che facciamo
meccanicamente risuonare ogni volta che “gli altri” si parlano fra loro (se
invece siamo noi che ci parliamo, allora non facciamo “un inciucio” ma un
“dialogo” ed un “utile confronto”).
Pare
che questa parola di origine dialettale (dal dialetto napoletano, con radici
onomatopeiche, in-ciù-ciò, per dire: pettegolezzo, maneggio intrigante) sia
stata riesumata e lanciata (con innegabile successo) negli anni scorsi da
D’Alema. Oggi però è diventata un’arma polemica di uso comune e di significato
banalizzante, ripetuta coralmente, tutti i santi giorni, da politici e
giornalisti e, poi, da tutti. Tutti ormai temiamo o crediamo di temere un
inciucio, magari finalizzato ad un “golpe bianco” (altro polifonema!). E in
questo comune temere radichiamo impliciti giudizi del tutto indipendenti dal
contenuto dell’accordo.
Mi
vengono in mente due passi della Genesi (11,1 e 11,7-9): “Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole”; ma Dio,
vedendo la loro superbia, disse (a se stesso):“’Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano
più l’uno la lingua dell’altro’. Il Signore li disperse di là su tutta la terra
ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele”.
Già,
Babele.
Roma,
6 aprile 2013, 41 giorni dopo le elezioni.
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