sabato 6 aprile 2013

Stupi-diario linguistico


Polifonemi
(di Felice Celato)
Fra le tante cose che questo paese folle sta disperdendo di sé (la sua vitalità, la sua gioia di vivere in una terra meravigliosa previlegiata anche dal sole, la sua solidarietà antica, la sua laboriosità ingegnosa, la sua tolleranza, la stessa pasta umana dei suoi abitanti, la loro capacità di adattarsi, la loro indulgenza, starei per dire anche la loro misericordia) ce n’è una che forse sfugge alla percezione dei più perché il disperdimento si realizza in maniera subdola e strisciante, con la complicità incosciente di tutti.
Stiamo lentamente uccidendo (disperdendo) la nostra lingua. Non mi riferisco però alla sua purezza lessicale, né ho in mente le pruderies francesi che aborriscono le contaminazioni e si ostinano a chiamare ordinateur quello che in tutto il mondo si chiama computer: se l’avessimo tutelata questa purezza lessicale oggi parleremmo ancora la lingua di Cicerone e Dante avrebbe scritto la sua Divina Commedia in latino! Non è a questo che mi riferisco (tanto più perché forse io sono proprio incline magari all’abuso di contaminazioni!). L’uccisione della nostra lingua ha una natura più profonda, perché affonda le sue radici in una materiale corruzione semantica che ci porta, lentamente, alla scissione fra significati e significanti. Stiamo diventando dei creatori di vuoti polifonemi (non cercate questa parola sul vocabolario perché non c’è; l’ho “inventata” io pensando ai fonemi – suoni linguistici elementari ed astratti – cui noi stiamo togliendo la caratteristica dell’elementarità, componendoli in strutture poli-foniche, tuttavia egualmente astratte, cioè prive di autonomo significato o piene di un significato del tutto confuso, spesso arbitrario). E la politica, col suo linguaggio pervasivo e fazioso, è la palestra in cui si sfornano (sarebbe meglio dire: sformano) parole nuove od antiche cui si legano significati esoterici, fatti di allusività faziose e maligne, basate sulla capacità di queste nuove od antiche parole di radicarsi nel linguaggio comune, con tutto il loro patrimonio di giudicante significanza che si trasmette, attraverso i media, al linguaggio “comune” contaminandolo e corrompendolo appunto semanticamente e rendendolo funzionale non alla comprensione ma al giudizio pre-cognitivo.
Gli esempi che si possono fare sono tanti e le vicende di questi tempi confusi ci aiuterebbero ad elencarli: da “destra” e “sinistra”(non ostante il loro uso quotidiano e comune, al significato “vero” di queste parole sono state dedicate pagine e pagine di non concordi opinioni), da “progressista” a “conservatore”, da “laico” a “clericale”, sono tante le parole che hanno perduto gran parte del loro significato ma che tuttavia rimangono nell’armamentario polemico e retorico a rappresentare etichette positive o negative a seconda dei punti di vista, a condannare o promuovere le altrui o le nostre opinioni. Ma qui mi vorrei soffermare su una parola che, “nel teatrino della politica” (altro polifonema polemico di facile presa!), è diventata un riflesso quasi pavloviano con cui etichettiamo (quando intendiamo avversarli) i tentativi di accordo fra le parti, che in altri tempi avrebbero costituito il sale della politica: la parola è “inciucio”, che facciamo meccanicamente risuonare ogni volta che “gli altri” si parlano fra loro (se invece siamo noi che ci parliamo, allora non facciamo “un inciucio” ma un “dialogo” ed un “utile confronto”).
Pare che questa parola di origine dialettale (dal dialetto napoletano, con radici onomatopeiche, in-ciù-ciò, per dire: pettegolezzo, maneggio intrigante) sia stata riesumata e lanciata (con innegabile successo) negli anni scorsi da D’Alema. Oggi però è diventata un’arma polemica di uso comune e di significato banalizzante, ripetuta coralmente, tutti i santi giorni, da politici e giornalisti e, poi, da tutti. Tutti ormai temiamo o crediamo di temere un inciucio, magari finalizzato ad un “golpe bianco” (altro polifonema!). E in questo comune temere radichiamo impliciti giudizi del tutto indipendenti dal contenuto dell’accordo.
Mi vengono in mente due passi della Genesi (11,1 e 11,7-9): “Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole”; ma Dio, vedendo la loro superbia, disse (a se stesso):“’Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro’. Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele”.
Già, Babele.
Roma, 6 aprile 2013, 41 giorni dopo le elezioni.

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