Prove di pensiero largo
(di Felice Celato)
Proviamo
a mettere giù un pensiero largo (almeno nelle intenzioni). In questa porzione
del mondo di cui siamo parte (diciamo l’Occidente sviluppato, grosso modo Europa + USA), in questo
periodo tanto confuso, si agitano tre macro-problemi in qualche modo
concentrici (rispetto all’Italia).
Primo
problema: la pressione dell’immigrazione è una componente comune (Europa +
USA) altamente sentita e in grado, da sola, di attivare vaste ansie politiche,
che partono dall’accoglienza e vanno fino all’integrazione delle ingenti masse
di profughi in movimento. Le pulsioni cd populiste
negli Usa e in Europa ne sono la manifestazione politica evidente, che non può
essere ignorata. L’UNHCR ha calcolato in
65 milioni il numero totale dei profughi, in buona parte accolti (fino a
quando?) nei paesi più vicini alle zone di guerra (lato sensu), cioè a Siria, Afghanistan, Somalia, ma anche Sudan, Sud
Sudan, Congo Birmania, etc.. L’Italia è diventata un crocevia drammatico dei
flussi che attraversano il Mediterraneo ma il problema è più o meno sentito in
tutta l’area che stiamo considerando.
Secondo
problema: Lo sviluppo economico langue; e questo è un problema soprattutto
in Europa (con varie gradazioni e noi, manco a dirlo, agli ultimi posti) e forse
meno negli USA, dove lo shock post
Lehman Brothers è ormai stato ampiamente assorbito. Per di più siamo, forse,
alle soglie di una cosiddetta quarta rivoluzione industriale dalla quale – secondo
alcuni – è da attendersi, in pochi anni, una massiccia job disruption, particolarmente concentrata in Italia, per la
struttura della sua occupazione. In Italia – come al solito in altre faccende affaccendati – se ne
parla poco, ma così è.
Terzo
problema: Tutto il mondo è caratterizzato da un ingente debito pubblico, ma
l’Italia è gravata dal secondo (dopo la Grecia) al mondo per entità (rispetto
al PIL e considerando l’aggregato Europa + Usa di cui stiamo parlando) e,
attualmente, il più alto della nostra storia, non ostanti i nostri solenni impegni
di riduzione, più volte assunti e quasi sempre disattesi (ogni volta per un
motivo che ci è parso buono). Per circa un quarto esso è detenuto da stranieri; inoltre è, pressoché integralmente, denominato in una valuta “condivisa” (l’Euro), cioè sulla quale abbiamo
una sovranità assai limitata ma dei cui benefici abbiamo a lungo goduto (non
foss’altro per il minor costo del nostro debito). Esso è frutto di un
prolungato statalismo, ormai diventato una vera e propria statolatria di gran parte della politica e anche del sentire comune. L’attuale scenario,
per certi versi surreale, di tassi negativi in ambiente deflattivo, se anche
può aprire la strada a soluzioni straordinarie (non è il caso qui di
considerarle), non cambia – per ora – lo stato di fatto.
Bene,
anzi male. La concentrazione sull’Italia di questi macro-problemi è, oltre che
una delle ragioni del mio pessimismo (che è assolutamente irrilevante),
soprattutto alla radice della debolezza del nostro posizionamento (e della
percezione che il mondo ha di noi), una debolezza assai più marcata del peso
intrinseco della nostra storia e della nostra economia nell’ambito di quelle
dei paesi più progrediti. Anche perché è connessa ad una tangibile arretratezza
culturale che tende ad emarginarci dalle realtà più dinamiche.
In
questo contesto, nel quale i problemi assumono una dimensione sovranazionale in
concentrazione nazionale, ascolto con raccapriccio i consueti brandelli di slogan consunti, vittimisti e velleitari
allo stesso tempo, di politici stanchi e onfalocentrici, attenti all’acchiappo
di consensi a buon mercato menando fendenti retorici al vento (tipo: vogliamo un'Europa dei cittadini e non dei banchieri!); e del tutto
dimentichi del ruolo di guida del paese che dovrebbe incombere su ogni
rappresentante del popolo. I commenti sulla vicenda Brexit (e su quanto ci
aspetta) ne offrono un’antologia quotidiana della quale sarebbe lungo citare
gli esempi.
Ripartiamo dalla politica,
dice Capaldo nel piccolo ma grande libretto che ho segnalato qui il 12 maggio
scorso (post Letture, Pensieri
sull’Italia): abbiamo bisogno di meno
superficialità, di meno qualunquismo, e di più capacità di ideare e di
costruire. Può darsi, come scrive oggi Gaspard Koenig su Les Echos pensando all’Europa, che il
conflitto che ci spacca non sia sociale ma morale e che i mondi che si fronteggiano
non siano il popolo e le élites (come
in fondo vuole la vulgata populista) ma il mondo di ieri e quello del domani.
Bisogna reagire, forse pensando che il domani è il luogo in cui vivranno i
nostri figli e i nostri nipoti.
Roma,
29 giugno 2016, festa dei Santi Pietro e Paolo
P.S.:
auguri a tutti quelli che portano i nomi di questi due grandi santi; entrambi
hanno investito la loro vita sulla promessa del futuro, col coraggio
dell’impopolarità.
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