Libertà e capitalismo
(di Felice Celato)
Complice una certa spossatezza – se da cambio di stagione o proprio solo da stagione (della vita, intendo) non saprei dire – ho cercato un po' di sollievo da letture che supponevo confortanti. Ed infatti, in buona parte, l’ho trovato, un solitario conforto; perciò ben volentieri mi appresto a segnalarle, soprattutto a coloro che, ratione aetatis o ratione temporum et morum, di conforti non ne trovano troppi nei moods del presente.
Il primo volumetto è Dante e la libertà, di Luciano Canfora (Solferino editore 2023), una specie di piccola antologia di testi dalla Divina Commedia ove il Sommo Poeta affronta, appunto, più o meno direttamente, il tema della libertà.
Dico subito che – piuttosto ovviamente – l’antologista non eguaglia l’autore; ma vale la pena di seguirne il ragionamento per cogliere, nella prospettiva dantesca, l’architettura della concezione di Dante, in cui l’amato “strumento politico” dell’Impero (da Cesare a Carlo Magno fino ad Arrigo VII) coesiste con gli empiti di libertà politica di Catone l’Uticense e con l’anelito di libertà della conoscenza di Ulisse, fino alla soglia del libero arbitrio (libero, dritto e sano) alla quale Virgilio “riconsegna” il Poeta al momento del congedo, alle soglie del Paradiso (XXVII Purgatorio).
Ovviamente pagine indimenticabili (quelle Dantesche), anche se – con molto imbarazzo – ho dovuto constatare che avevo invece dimenticato il bellissimo canto VI del Paradiso
dove l’imperatore Giustiniano tratteggia la storia dell’Impero partendo da Enea fino a Cesare e a Carlo Magno. Ed è stato un piacere riscoprirlo.
Veniamo ora al secondo volumetto di queste giornate, sicuramente più agevolmente leggibile e più palpitante di attualità (e quindi necessariamente… meno estraniante del primo ma anche più… stimolante). Si tratta del libro di Alberto Mingardi Capitalismo, edito da Il Mulino, 2023, nella bella collana Parole controtempo: poco più di cento cinquanta leggibilissime pagine, appassionate (che non vuol certo dire non ragionate!) ed appassionanti, di storia dell’idea e del fascino che esercita in coloro (dei quali io faccio parte) che non amano un mondo nel quale qualcun altro, per quanto animato dalle migliori intenzioni, pretenda di scegliere per noi.
Il capitalismo – scrive Mingardi – forse è proprio questo: non una mano (come vogliono certi immaginifici retori dello stato che guida), ma un “setaccio invisibile” che consente che alcuni progetti sopravvivano e altri no, non in ragione di un'indicazione predeterminata, ma sulla base delle preferenze e del mutevole gradimento dei consumatori.
L’immagine dello “stato che guida” (l’economia, e quindi la crescita e quindi il benessere economico dei cittadini e anche le finanze dello stato) si presta anche ad una altra metafora che Mingardi usa, adombrando certi stilemi con cui la politica guidatrice dell’economia giustifica i suoi propri fallimenti; la riporto integralmente: si pensa di poter “guidare” l'economia come fosse un'automobile, ma si sceglie, per esempio, di non curarsi più di quanto carburante consuma (di quante risorse pubbliche assorbe), di non guardare la spia dell'olio (il sistema dei prezzi), di non cambiare le gomme se sono usurate (niente disciplina di mercato). Basta che l'autista abbia chiara la direzione, non serve altro. Solo che poi ci si ferma lungo la strada. Anche allora, però, l'autista non si chiede se ha finito il carburante, se è il motore ad avere bisogno di un controllo, se le gomme vanno cambiate. Semplicemente ribattezza la piazzola in cui ha dovuto fermarsi col nome del paese dove era diretto.
Ai lettori di queste colonnette non sono necessarie altre citazioni per comprendere perché queste svelte pagine di Mingardi (di cui raccomando la lettura) mi sono risultate estremamente gradevoli: alleviano la solitudine di chi si sente superato dai tempi (o almeno dai convincimenti dei più; ecco, forse, perché le considerazioni di Mingardi sono inserite nella collana Parole controtempo).
Roma, 9 maggio 2023 (festa dell’Europa)
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