Ansia di comprensione
(di Felice Celato)
Questo post non è il frutto di una compiuta riflessione ma, come dice il titoletto, il frutto di un’ansia di comprensione; vorrei cioè capire – cosa che non mi è finora riuscita – che cosa si voglia veramente dire quando, sempre più frequentemente, si sente dire che la “bussola” di una politica (o di una parte politica) è il pragmatismo. Devo intendere – volendo far credito a questi affascinanti orientamenti e saccheggiando dai riferimenti filosofici che ho trovato sfogliando l’Enciclopedia Treccani – che per pragmatismo si intenda (nel migliore dei casi) l’atteggiamento che consiste nel privilegiare i risultati concreti, le applicazioni pratiche di ciascuna azione politica più che i principi o i valori ideali (che potrebbero costituire "l’ingombrante" fardello di ogni impostazione ideologica, magari della parte avversa).
E (direi: certamente) in larga misura un sano pragmatismo (come sopra inteso) è cosa buona e giusta, quando si tratta di scegliere fra una cosa buona (l’azione politica secondo ragione) e una cosa cattiva (l’azione politica non conforme alla ragione). [Del resto, diceva Benedetto XVI in un memorabile discorso di ben altro livello, non agire secondo ragione, σὺν λόγω, è contrario alla natura di Dio].
Ma mi domando (e vi domando, miei lettori): quale sarebbe, in politica, la cosa buona e giusta quando si tratta di scegliere fra beni diversi (al plurale) e fra mali diversi (al plurale) di un’azione politica? E ancora: fra beni di oggi e mali di domani invece che fra mali di oggi e beni di domani? [Faccio un esempio tratto dalle vicende recenti del nostro paese (i famosi super-bonus edilizi): fra un bene di oggi (il presidio della produzione del benessere, con un forte stimolo alla tenuta del famoso PIL, in un momento di grave crisi come lo furono le conseguenze economiche del Covid) e un male di domani (l’erosione delle entrate fiscali future)].
Certo, se l’azione politica consiste nell’amministrare il presente secondo ragione, un sano pragmatismo non può che essere una buona cosa, un saggio proposito. Ma se l’azione politica si affaccia sul futuro e sulla necessità di scegliere fra diversi beni o fra diversi mali, o (mi ripeto) fra beni di oggi e mali di domani, il sano pragmatismo non basta: ci vuole un certo progetto sul futuro della comunità che si dovrebbe guidare (questa è la leadership); e per fare un progetto ci vuole una visione del futuro (una vision, direbbero gli americani); e, ancora, per avere una visione sul futuro occorre avere un’idea di cosa è bene e di cosa è male per una comunità; e, in democrazia, sarebbe necessario comunicare con chiarezza questa visione a chi, in fondo (e senza affatto mitizzarne la saggezza), detiene il potere di determinare la scelta progettuale, cioè – nel nostro discorso – la scelta fra i diversi beni (al plurale) perseguibili e fra i diversi mali (al plurale) da scongiurare. Del resto, scrive il Censis, fare politica è un esercizio alto, è l’arte del consenso e dell’interpretazione dei sentimenti e dei bisogni sociali, è un compito complesso di responsabilità e immaginazione: significa leggere nel Paese lo sguardo nel futuro. Eppure, l’anno che si chiude lascia l’amaro sapore di una politica tutta giocata sul gusto non di fare, ma di essere politici (e questo, aggiungo io, non vale certo solo per chi è al governo!).
Capiranno bene, i miei lettori più intelligenti di me, che alla luce di queste considerazioni e di tante altre che potrebbero farsi al riguardo, urge capire se il sano pragmatismo come bussola della politica sia veramente la virtù (perché di virtù si tratta, beninteso) di cui abbiamo più bisogno per non solo galleggiare (copyright Censis).
Roma, 8 dicembre 2024, Immacolata Concezione e seconda domenica di Avvento
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