Olivi ed olivi selvatici
(di
Felice Celato)
Ricorre
fra pochi giorni il cinquantesimo anniversario di un documento conciliare che
ha, in modo forse radicale, cambiato la storia dei rapporti fra cristianesimo
ed ebraismo. Si tratta della Dichiarazione
sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, meglio noto
come Nostra aetate; cinque pagine che hanno posto una
pietra sopra una secolare ostilità nutrita dal popolo cristiano verso il popolo
ebraico, un’ostilità, occorre riconoscerlo, alla quale ha grandemente concorso
l’antigiudaismo cristiano basato sull’accusa di deicidio rivolta dai cristiani agli ebrei come popolo.
Per
celebrarlo a modo mio, mi sono avventurato nella lettura di un magnifico testo
(La Chiesa e il popolo ebraico),
pubblicato da Morcelliana nella sua collana “Storia” e scritto dal cardinale
Agostino Bea che di quel documento fu animatore e relatore.
Le
origini di quell’ostilità, e gli argomenti di cui si è per anni nutrita, sono
ripercorse dal Cardinale Bea con esemplare chiarezza, senso della sintesi e
dottrina.
Tutti
i miei pochi lettori sanno quanto sia forte la suggestione che la cultura
ebraica ha esercitato su di me, e tutt’ora esercita ormai da quasi cinquant’anni
(già, forse mi sono appassionato del tema sui banchi del liceo, quando per la
prima volta mi capitò di avere a che fare con una simpatica compagna di scuola
di religione ebraica e di stretta osservanza); da sempre per la verità, da
quando ho cominciato ad interessarmi al tema, ho rifiutato il pensiero che un intero
popolo potesse essere e per sempre ritenuto responsabile dei fatti che
portarono alla crocifissione di Gesù, a Gerusalemme in quei fatidici giorni, e
sempre mi ha colpito il pensiero della naturale ebraicità di Gesù, dei suoi
parenti, dei suoi discepoli e dei suoi primi seguaci; e da allora mi sono
“specializzato” in letture che hanno argomentato la mia passione per questa
cultura e per le sue odierne vicende ed eredità. Oggi….ormai declinante nella
vecchiaia, posso dirmi compiutamente innamorato dell’ebraismo ancorchè (questo lo sanno tutti i miei lettori) profondamente e convintamente cattolico. E
dunque, per celebrare degnamente questo anniversario, mi limiterò a riportare
qui un passo, per tanto tempo dimenticato – nei fatti – da noi cristiani, della
Lettera ai Romani (1, 13-14, 16-21), scritta dall’Apostolo delle Genti, san
Paolo, fariseo figlio di farisei e grande “scardinatore” del recinto dell’elezione
del suo popolo; un passo che faremmo bene ad avere costantemente presente a
perenne memoria del debito della nostra civiltà cristiana verso la “radice”
della nostra salvezza:
A voi, genti, ecco che cosa dico: come
apostolo delle genti, io faccio onore al mio ministero, nella speranza di
suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni….Se le
primizie sono sante, lo sarà anche l’impasto; se è santa la radice, lo saranno
anche i rami. Se però alcuni rami sono stati tagliati e tu, che sei un olivo
selvatico, sei stato innestato fra loro, diventando così partecipe della radice
e della linfa dell’olivo, non vantarti contro i rami! Se ti vanti, ricordati
che non sei tu che porti la radice ma è la radice che porta te.
La
maggioranza del popolo di Gerusalemme, in quei giorni della Storia, non
riconobbe il Cristo come Dio (e quindi non può essere stato deicida!) e non
comprese quella regalità così diversa da quella attesa; quanti errori da
allora, prima di allora e fino ad oggi, hanno fatto le maggioranze, quante
volte hanno seguito le suggestioni dei capi più scellerati, quanti crimini ha
conosciuto la storia per la cecità dell’uomo, quante volte non comprendiamo,
quante volte ci chiudiamo nel recinto delle nostre convinzioni, quante volte
rimaniamo prigionieri della nostra stessa cultura!
Oggi,
a distanza di cinquant’anni, abbattute tante barriere, riscoperta la relazione
tra rami e radici, possiamo guardare con occhi nuovi alla identità del legno, alla
luce di quel Legno.
In
fondo, ogni singola espressione della nostra preghiera fondamentale (il Pater Noster) ha profonde radici ebraiche
e, credo, ogni nostro fratello ebreo potrebbe recitarla con noi senza
imbarazzo, come noi potremmo recitare con lui il Kaddish.
Roma,
4 ottobre 2015, San Francesco d’Assisi (auguri a tutti i Franceschi!)
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