Proporzioni
(di Felice Celato)
Il
grande interesse che la stampa mostra di nutrire per il Sinodo della Chiesa
cattolica appena conclusosi (per esempio, dal Corriere della Sera del 25
ottobre: titolo di apertura in prima pagina, poi le pagine intere 2,3 e 5) ed
in particolare per la ben nota questione della comunione ai risposati, mi
spinge a due considerazioni: (1) forse sarebbe stato meglio scegliere una
gestione meno clamorosa per questa assise largamente equivocata dai media; l’interesse suscitato è – lo do
per certo – se non malizioso almeno largamente meta-oggettivo, cioè la materia in
sé non interessa che a pochi lettori, per i quali, peraltro, molte visuali
mediatiche dell’evento risultano addirittura irritanti (certamente per me è
così). (2) Il clamore suscitato dal tema che invece ha affascinato i media, mi pare largamente sproporzionato
all’entità dei supposti sottostanti “bisogni” (qualsiasi cosa voglia dire
questo termine applicato alla materia de
qua, squisitamente spirituale).
Per
confortare questa osservazione, proverò a sintetizzare alcuni numeri che traggo
da una non recente indagine sociologica del Censis (ha giusto 10 anni, quando
papa era il popolarissimo ed amatissimo San Giovanni Paolo II); mi mancano dati
più recenti ma credo che l’analisi sia tuttora significativa. Dunque su 100
italiani, secondo il campione statistico considerato dal Censis, 57,8% si
dichiara cattolico praticante e il 28,7% cattolico non praticante (il resto,
13,5%, si dichiara indifferente, ateo o di altra religione). Ma, dei sedicenti
praticanti (cioè di quei 57,8) solo 21,4 vanno a messa (almeno) settimanalmente
e di questi suppongo – la stima è tutta mia e totalmente empirica – più o meno
la metà (diciamo 12 su 21,4) chiede la comunione; gli altri 36,4 ci vanno (a messa) solo
saltuariamente e – suppongo – altrettanto saltuariamente si accostano alla
comunione Se ci riportiamo al 100 del campione, possiamo così dire che la
comunione “riguarda” poco più del 10-12% degli italiani, pari, grosso modo, al 20% dei sedicenti praticanti (infatti 12/57,8=
0,21). Fra i divorziati risposati immagino che l’interesse per l’ostia
consacrata possa essere sensibilmente più basso di quello rilevabile presso i
praticanti. In ogni caso non me la sarei sentita di prevedere lunghe code
davanti agli altari (anzi, prima davanti ai confessionali!) nemmeno se – come
sembrava auspicare molta stampa tifosa in materia che tifo non ammette – la
comunione ai divorziati risposati fosse stata totalmente “liberalizzata” (qualsiasi
cosa voglia dire questo termine applicato alla materia de qua).
Mi
rendo conto che la questione mal si presta ad un’analisi quantitativa; però il
clamore sì.
Roma
25 ottobre 2015
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