Morire di eufemismo o di truculenza?
(di Felice Celato)
Non
so dove ho trovato questa espressione ("morire di eufemismo") che mi è parsa subito felice, come sono
felici, spesso, certe istantanee che ci fotografano in pose fugaci assai più
rappresentative di noi di un qualsiasi studiato ritratto.
L'eufemismo
(dal greco eupheméo, pronunciare
parole di buon augurio, composto da eu, bene, e phemì
- dire) è diventato, mi pare, una diffusa cifra non solo del nostro
parlare ( e fin qui sarebbe anche accettabile: noioso, banale, spesso ipocrita,
talora ridicolo, ma sempre accettabile) ma anche del nostro modo di pensare:
non solo ci esprimiamo con political
correctness ma addirittura ci
sforziamo di pensare già direttamente in politically
correct; non solo diciamo curiali ipocrisie (voglio essere buono: spesso
coscienti, e dunque tollerabili) ma direttamente pensiamo cose gentili di aspre
realtà; non solo ammantiamo
l'espressione di una sottile patina di pacata saggezza, misurata in alto, in
basso, a destra e a sinistra, ma addirittura governiamo i nostri
"pensieri" in maniera tale che non ne escano puntute sporgenze,
perché potrebbero urticare, raschiare, sfregiare. Anzi, per meglio essere
caramellosi propalatori di pensieri deboli cerchiamo di farlo nascere
direttamente debole, il nostro pensiero, levigato, spesso scivoloso; comunque
innocuo. Ciò che è aspro lo pensiamo direttamente “non abbastanza dolcificato”.
Ma
non è vero! si potrebbe obiettare con
facilità. La realtà quotidiana spesso presenta proprio l'opposto: basta leggere
i commenti dei “lettori qualunque” ad ogni notizia che compare sui giornali internet,
o ascoltare le opinioni della "ggente" appositamente raccolte da
qualche talkshow! O anche, più
efficacemente, direi plasticamente, basta seguire in TV o in parlamento, un
"dibattito" politico fra gli Alti Rappresentanti del popolo,
democraticamente selezionati, con primarie o senza primarie. Basta questo per
rendersi conto che è perfettamente vero anche
l'opposto di quel che dicevamo sopra:
vogliamo essere puntuti,
sfregianti, urticanti e, dunque, scegliamo un altro linguaggio originato da
"pensieri gutturali", ma scegliamo la volgarità non solo a valle del
processo pensiero-espressione ( come talora hanno fatto anche raffinati
intellettuali) ma già la ricerchiamo fin dall'origine del pensiero, perché
nasca proprio così, naturalmente grossolano o addirittura triviale. Ciò che è
aspro lo pensiamo direttamente “schifosamente acido”.
Giusta
obiezione: in realtà viviamo in un periodo di polarizzazione dei linguaggi cui
si accompagna, purtroppo, una polarizzazione dei pensieri. Dal linguaggio al
pensiero (anziché viceversa), come è proprio di una società che parla molto e
pensa poco.
In
fondo sia la ricerca del pensiero eufemistico che la ricerca di quello
truculento costituiscono operazioni che,
saccheggiando Orwell, definirei di psico-polizia
autogena: da soli accettiamo di atteggiare la nostra mente a combinare un
processo pensiero-espressione coerente fin all'origine con la sensazione che
intendiamo trasmettere: pensiero debole per espressioni dolci; pensiero trucido
per espressioni grevi. L’espressione guida il pensiero, come è proprio di una
società comunicativa.
E in mezzo? In mezzo a questi poli del linguaggio
corre il rischio di non capire la realtà e di non capirsi fra noi, di mentirci,
di nasconderci la verità per amore di un linguaggio funzionalizzato o
all’indoramento o all’acrimonia.
Giorni fa mi è capitato di sentire un discorso di De
Gasperi al ritorno da una delle tante missioni nelle quali si discuteva il
destino dell’Italia, ancora in mezzo alle macerie materiali e morali
dell’immediato dopoguerra: non una parola decettiva, nessun miele sulle piaghe,
nessun infingimento; blood, toil, tears
and sweat, (sangue, fatica, lacrime e sudore) come avrebbe detto Churchill
che pure voleva la vittoria.
E ho pensato, con un brivido, a come sarebbe stato il
discorso di De Gasperi se a pronunciarlo fosse stato un leader di oggi. Ma allora ci si voleva capire, perché si pensava
che capirsi è più importante del far credere, dirsi la verità più utile del
nascondersela.
Roma, 13 ottobre 2015
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