martedì 13 ottobre 2015

Polarizzazione dei linguaggi

Morire di eufemismo o di truculenza?
(di Felice Celato)
Non so dove ho trovato questa espressione ("morire di eufemismo") che mi è parsa subito felice, come sono felici, spesso, certe istantanee che ci fotografano in pose fugaci assai più rappresentative di noi di un qualsiasi studiato ritratto.
L'eufemismo (dal greco eupheméo, pronunciare parole di buon augurio, composto da eu,  bene, e phemì - dire) è diventato, mi pare, una diffusa cifra non solo del nostro parlare ( e fin qui sarebbe anche accettabile: noioso, banale, spesso ipocrita, talora ridicolo, ma sempre accettabile) ma anche del nostro modo di pensare: non solo ci esprimiamo con political correctness ma addirittura ci sforziamo di pensare già direttamente in politically correct; non solo diciamo curiali ipocrisie (voglio essere buono: spesso coscienti, e dunque tollerabili) ma direttamente pensiamo cose gentili di aspre realtà;  non solo ammantiamo l'espressione di una sottile patina di pacata saggezza, misurata in alto, in basso, a destra e a sinistra, ma addirittura governiamo i nostri "pensieri" in maniera tale che non ne escano puntute sporgenze, perché potrebbero urticare, raschiare, sfregiare. Anzi, per meglio essere caramellosi propalatori di pensieri deboli cerchiamo di farlo nascere direttamente debole, il nostro pensiero, levigato, spesso scivoloso; comunque innocuo. Ciò che è aspro lo pensiamo direttamente “non abbastanza dolcificato”.
Ma non è vero!  si potrebbe obiettare con facilità. La realtà quotidiana spesso presenta proprio l'opposto: basta leggere i commenti dei “lettori qualunque” ad ogni notizia che compare sui giornali internet, o ascoltare le opinioni della "ggente" appositamente raccolte da qualche talkshow! O anche, più efficacemente, direi plasticamente, basta seguire in TV o in parlamento, un "dibattito" politico fra gli Alti Rappresentanti del popolo, democraticamente selezionati, con primarie o senza primarie. Basta questo per rendersi conto che è perfettamente vero anche  l'opposto di quel che dicevamo sopra:  vogliamo  essere puntuti, sfregianti, urticanti e, dunque, scegliamo un altro linguaggio originato da "pensieri gutturali", ma scegliamo la volgarità non solo a valle del processo pensiero-espressione ( come talora hanno fatto anche raffinati intellettuali) ma già la ricerchiamo fin dall'origine del pensiero, perché nasca proprio così, naturalmente grossolano o addirittura triviale. Ciò che è aspro lo pensiamo direttamente “schifosamente acido”.
Giusta obiezione: in realtà viviamo in un periodo di polarizzazione dei linguaggi cui si accompagna, purtroppo, una polarizzazione dei pensieri. Dal linguaggio al pensiero (anziché viceversa), come è proprio di una società che parla molto e pensa poco.
In fondo sia la ricerca del pensiero eufemistico che la ricerca di quello truculento costituiscono  operazioni che, saccheggiando Orwell, definirei di psico-polizia autogena: da soli accettiamo di atteggiare la nostra mente a combinare un processo pensiero-espressione coerente fin all'origine con la sensazione che intendiamo trasmettere: pensiero debole per espressioni dolci; pensiero trucido per espressioni grevi. L’espressione guida il pensiero, come è proprio di una società comunicativa.
E in mezzo? In mezzo a questi poli del linguaggio corre il rischio di non capire la realtà e di non capirsi fra noi, di mentirci, di nasconderci la verità per amore di un linguaggio funzionalizzato o all’indoramento o all’acrimonia.
Giorni fa mi è capitato di sentire un discorso di De Gasperi al ritorno da una delle tante missioni nelle quali si discuteva il destino dell’Italia, ancora in mezzo alle macerie materiali e morali dell’immediato dopoguerra: non una parola decettiva, nessun miele sulle piaghe, nessun infingimento; blood, toil, tears and sweat, (sangue, fatica, lacrime e sudore) come avrebbe detto Churchill che pure voleva la vittoria.
E ho pensato, con un brivido, a come sarebbe stato il discorso di De Gasperi se a pronunciarlo fosse stato un leader di oggi. Ma allora ci si voleva capire, perché si pensava che capirsi è più importante del far credere, dirsi la verità più utile del nascondersela.
Roma, 13 ottobre 2015


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