La
cultura della complessità
(di
Felice Celato)
Il progredire delle conoscenze ha
ridotto, se non azzerato, l’area del semplice.
La più ordinaria delle cose, all’esplorazione esperta, si rivela di una
straordinaria e, spesso, meravigliosa complessità. Pensate all’acqua (San Francesco
così la cantava ne Il cantico delle
creature: Laudato si’, mi’ Signore,
per sor’Aqua, la quale è molto utile et humile et pretiosa et casta). Siamo
così avvezzi all’acqua (bene comune,
diciamo spesso e non sempre a proposito), ne percepiamo così istintivamente la preziosa e casta umiltà che ben
difficilmente indovineremmo che, nell’Enciclopedia Treccani, la pur sintetica
illustrazione della voce “acqua” prende 7362 parole (per intenderci: 10 dei
nostri post, una quindicina di pagine
fittamente dattiloscritte).
Ci pensavo leggendo un appassionato
articolo di Giuseppe De Rita sul Corriere
della sera di ieri (La mediocrità
politica alimenta l’indifferenza) dove appare, appunto, il sintagma che dà
il titolo a questo post, contrapposto
al radicale semplicismo delle opinioni.
E mi domandavo che cosa induca sempre più persone a cadere nell’equivoco che
basti aprire il dorso di un orologio che si è fermato e serrare o allentare la
prima vite che ci capita davanti, per rimettere in moto l’intero meccanismo [il
copyright di questa metafora non è
mio ma non ricordo a chi doverosamente attribuirlo].
Sgombriamo il campo da una sempre
possibile accusa di tecno-filìa: la supponenza
degli esperti che abusano del linguaggio tecnico, magari altamente
specialistico, per contornarsi dell’aura quasi sacrale di detentori del sapere,
è spesse volte – come vedremo subito – alla radice del male (oltre che
esibizione in sé ridicola). Ma la distopìa
del linguaggio (cioè l’uso di un linguaggio fuori del luogo ad esso
appropriato) è una “malattia” non solo diffusa fra gli specialisti che
dovrebbero farsi capire; in senso paradossale, anzi, è diventata (nelle forme
più triviali) la cifra degradata del nostro stesso modo di comunicare: in
televisione, per esempio, come in politica del resto. Solo che, nel primo caso
(in bocca allo specialista sussiegoso) il linguaggio distopico crea inevitabilmente
il sospetto di vuoto dietro al complesso; nel secondo caso (in bocca al
comunicatore triviale) direttamente banalizza e mortifica la complessità del
reale. In entrambi i casi questa ne esce oscurata, a vantaggio di una
semplificazione (il semplicismo delle
opinioni di cui parlava De Rita) che non ha più radici nel mondo effettivo;
e che rischia di alimentare false convinzioni in ordine alla stessa
attingibilità della conoscenza, estraniandola dalle sue basi, che, poi, sono
rimaste quelle di sempre: un faticoso cammino in salita fatto di studio (talora
solitario) e di esperienza; entrambi esigenti tempo e sudore non alla portata
di tutti. Non è un caso, credo, che la più alta fra le conoscenze, quella che
avvicina l’uomo a Dio, trova il suo luogo in
disparte, su un alto monte e, il
suo tempo, dopo una faticosa salita di uno o di pochi (dall’Oreb alla
Trasfigurazione).
Da questo punto di vista – ne parlammo
qui nel luglio scorso – il “pensiero”
semplicista, non può che essere un’illusione e, innanzitutto, un inganno:
non esistono soluzioni semplici per problemi complessi, in ogni branca delle umane
attività. Se, come credo (e forse troppe volte ripeto), tutto ciò è vero per le
singole conoscenze, tanto più – e questo era il senso dell’articolo di De Rita
– lo sarà per quel coordinato incastro di conoscenze e aspettative che è il
governo di un paese (la politica, per intenderci; dove la complessità si fa sistema).
Sono sicuro che qualcuno avrà visto,
in questa, in fondo incontrovertibile, constatazione, una manifestazione di
elitarismo; come del resto molti saranno stati scandalizzati dalla provocatoria
conclusione di De Rita “ridiamoci una
casta” (chi ha letto L’eclissi della
borghesia di G. De Rita e A. Galdo, Laterza, del 2012, non ne sarà invece
sorpreso; del resto il contemporaneo articolo di Galli della Loggia, sempre sul
Corriere, a questo allude: La cultura e l’impegno svanito). Ma se
smettiamo di aver paura delle parole e del corrente Zeitgeist, sarà facile riconoscere che meccanismi complessi
richiedono orologiai esperti e che avvitare o allentare viti a casaccio può
essere estremamente pericoloso.
Diranno magari i cultori della contesa
politica ad ogni costo: ma i precedenti orologiai hanno fatto fermare le
lancette! Vero, o, almeno, sostenibile: allora cambiamo orologiaio, senza
mettere l’orologio in mano ad un fabbro (già l’abbiamo fatto, sia pure con il
figlio di un fabbro… e non fu un gran successo).
Roma, 4 marzo 2018, festa di san
Casimiro di Cracovia; stanotte a Los Angeles si assegnano gli Oscar.
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