Italia locuta
(di
Felice Celato)
Italia locuta, causa finita: facendo il verso agli antichi romani (Roma locuta, causa
finita), da “veri” democratici dobbiamo accettare – ci piacciano o non ci
piacciano – le indicazioni del popolo Italiano; per carità, diviso quanto si
vuole fra nord e sud (ma è poi vero, nello specifico?), fra centri urbani e
regioni, fra classi finora dominanti e classi emergenti, ma, in fondo, unito, a
larghissima maggioranza e inequivocabilmente, in una confusa domanda di nuovo;
domanda per la verità, in sé, pienamente comprensibile, visti i risultati di
tanti anni di governi miopi (cioè dalla vista corta) e parolai, peraltro
vagliati al fuoco di una lunga crisi economico-finanziaria e di problemi
“epocali”. Si potrebbe certamente discettare se il nuovo promesso sia “buono”
o sia “cattivo”; o se sia compatibile con le risorse disponibili (ivi compresa
la capacità di credito del sistema); ma oggi, post suffragium, la questione sarebbe sterile, perché – appunto –
l’Italia ha parlato e ha detto quello che ha detto; quod scripsi, scripsi
potrebbe dire il popolo italiano, facendo, stavolta, il verso a Pilato; né
avrebbe più senso, sempre post suffragium, sorridere sulla battuta “state
attenti a dove mettete la croce, perché poi bisogna portarla”. Per fortuna
- si potrebbe storicamente argomentare - i partiti, quando governano, non sono
mai come quando cercano i voti (e stavolta lo spero; altre volte, ce ne siamo
lamentati, a commento della parabola del Berlusconi liberale). E questo, per paradosso, ci apre il cuore a qualche speranza, quand’anche avessimo
votato per una delle parti sicuramente perdenti a queste elezioni (PD rovinosamente
e Forza Italia più sottilmente).
Ma lasciamo perdere: verrei
meno al difficile impegno di non parlare dei risultati elettorali se andassi
avanti per aggiungere la mia modesta alle tante analisi esperte che si
susseguono sui media. Ci sarà tempo -
anche se ce ne potrà mancare la voglia - per commentare le conseguenze
oggettive della svolta storica (sì, forse di questo si tratta!) impressa dal
voto allo scenario politico Italiano e, indirettamente, a quello Europeo (non
dimentichiamo che fra poco più di un anno si vota per l’Europa).
E allora mi viene da porre
un problema più ampio, diciamo così, filosofico.
Nelle moderne democrazie, c’è ancora spazio per la politica del “difficile”? O,
necessariamente, per vincere, la politica deve essere “facile” (in ciò che
prospetta, prima; e in quello che fa poi, come racconta la storia del nostro
debito pubblico)? Insomma: oggi, con il dominio della comunicazione che
caratterizza le nostre società e in una situazione per molti aspetti assai
complicata, ha senso politico porre al popolo difficili obbiettivi per il
domani, da duramente perseguire nell’oggi? Ovvero occorre coscientemente e ogni
giorno costruire il gap che separa
ciò che si propone da ciò che si dovrà comunque fare (con ciò, in fondo, confezionando suggestive narrazioni)? Per sintetizzare brutalmente: il
popolo vuole ascoltare solo quello che gli fa piacere? Il politico vuole solo
capitalizzare il suo transitorio periodo di potere, prima di essere processato
dai fatti?
Per carità, le promesse
elettorali da sempre scontano una ricezione vagamente scettica; e poi, checché
fingano di pensare i partiti, il voto spesso esprime un sintetico consenso (o dissenso), poco connesso con l’analisi delle proposte (il famoso programma, in
cui i politici dicono di credere, per fortuna spesso mentendo) e assai più
frutto di generiche manifestazioni di fiducia aggregate attorno ad uno slogan generico, ossessivamente ripetuto
in ogni comparsata televisiva; fiducia magari solo emotiva (e quindi
provvisoria e fluttuante). Però il problema, secondo me, esiste e ci porta
indietro, verso le radici del consenso democratico e verso l’esigenza di una
sua dimensione critica, da coltivare costantemente.
In uno straordinario libro
di qualche anno fa (Il “crucifige” e la
democrazia, Einaudi, 2007, cfr. qui Letture del 19 settembre 2013) Gustavo
Zagrebelsky ricostruiva la vicenda della tragica decisione “democratica” di
duemila anni fa e delineava il concetto di democrazia critica (nulla, per la democrazia critica, è tanto
insensato quanto la divinizzazione del popolo, di cui è espressione la massima vox
populi vox Dei, una forma di idolatria
politica) e ne fissava una specie di manifesto civile: la democrazia critica deve mobilitarsi contro chi rifiuta il dialogo,
nega la tolleranza, ricerca soltanto il potere, crede di avere sempre ragione. La
mia speranza è che, deposti i generali “furori” di una ignobile campagna elettorale, non
ci sia necessità alcuna di richiamarsi a tale dovere.
Roma 6 marzo 2018
Nessun commento:
Posta un commento