giovedì 1 febbraio 2018

Spigolature socio-politiche

Pur tuttavia
(di Felice Celato)
Fra ieri e l’altro ieri il Corriere della Sera ha pubblicato due articoli sui quali (è proprio il caso di dire) vale la pena di tornare: prima Giuseppe De Rita ha scritto su Un elettorato incapace di sentimenti condivisi; poi Ernesto Galli della Loggia ha scritto su La politica e le colpe di un paese. Dalle citazioni che ho più volte fatto dei due autori, i lettori si saranno resi conto che, entrambi, godono, presso di me, di grande rispetto intellettuale e civile, quand’anche non sempre  condivida integralmente ciò che dicono (il distinguo ricorre più spesso per Galli della Loggia che per De Rita); il che, comunque, non vale certo per i due articoli in discorso le cui analisi, per la verità, mi vedono entrambe pressoché integralmente consenziente.
Cominciamo dal secondo: in estrema sintesi, Galli della Loggia pone la brutale domanda: non abbiamo forse anche noi [Italiani] fatto qualcosa per meritarci….lo spettacolo….del disprezzo di tipo realmente castale per gli elettori che la campagna elettorale mette in scena? E conclude senz’altro per il sì: sono una sparuta minoranza (e i politici lo sanno!) gli Italiani che vogliono veramente un paese diverso: dove ‘veramente’ significa essendo disposti a pagare il prezzo necessario ad averlo. A tutti gli altri, invece, va più o meno bene il Paese che c’è: naturalmente riservandosi il diritto di imprecare ad ogni momento che “in Italia è tutto uno schifo”. Il ritratto è quello di un’Italia nella quale i nodi culturali e sociologici sono infine arrivati al pettine.
De Rita, d’altro canto osserva: per anni ci siamo spesi tutti i sentimenti politici possibili: la rabbia contro la casta, la delegittimazione della classe dirigente, l’indignazione e la denuncia anticorruzione, lo sputtanamento anche volgare di ogni avversario, il «vaffa» corale ed entusiastico nelle piazze, il plauso alla rottamazione, il moralismo dilagante, la speranza di un uomo o di un governo «forte», la contrapposizione rabbiosa sulla revisione della carta costituzionale, i tanti risentimenti personalistici o di piccolo gruppo, il rancore di quanti hanno sofferto il fermarsi dell’ascensore sociale. E tanto altro. Se un qualche privato cittadino esprimesse un «lasciatemi stare», converrà dire che non avrebbe torto….Nessuno nega, tuttavia, l’importanza degli appelli allarmati rivolti dalle più alte magistrature nazionali fino all’ultimo parroco di periferia a non snobbare la prossima tornata elettorale, richiamando o il dovere alla partecipazione democratica o più banalmente l’esigenza di un voto utile; ma essi sembrano non del tutto consapevoli del fatto che oggi nel conclamato disinteresse della gente vince una componente né politica né culturale, ma antropologica: abbiamo di fronte un elettorato vagotonico, propenso più a ricaricarsi che a entrare in campo, indifferente a quel che avviene nella vita comunitaria, appiattito sulle proprie scelte personali, quasi prigioniero di un sopore difficile da smuovere: un elettorato senza condivisione di sentimenti collettivi. Il ritratto è quello di un’Italia che si è persa per strada, forse per le troppe parole.
Se questo è il quadro, dovremmo concludere che c’è poco da attendersi dal prossimo futuro: l’ elettorato senza condivisione di sentimenti collettivi e la sparuta minoranza  di Italiani che vogliono veramente un paese diverso sono la disperante conseguenza di quella crisi antropologica del paese cui abbiamo fatto cenno qui più volte (del resto utilizzando un’espressione coniata proprio da De Rita). E dunque, per fare il verso a Joseph Roth, potremmo dire finis Italiae.
Forse anche un pur tuttavia suonerebbe vacuo, magari apparirebbe un’espressione di rito basata sulla fiduciosa continuità della storia, sulle sempre possibili sorprese dell’esistenza, sull’imprevedibile efficacia trasformante delle crisi o, addirittura, sul concetto religioso di storia come luogo della Salvezza.  Il fatto è, però e più semplicemente, che non mi rassegno a credere che la follia dei tempi sia giunta a tal punto da cancellare definitivamente la memoria delle nostre eredità, le tracce del cammino percorso, la tenacia delle nostre risorse, il sapore dei frutti che abbiamo colto e di quelli che potremmo ancora cogliere, ancorché il mondo sia cambiato.
E allora, io che detesto coltivare illusioni, un pur tuttavia di pura ribellione lo metto giù, sperando che sia l’avversativo giusto; il nostro avversativo è l’Europa.
Roma, 1° febbraio 2018







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