Pur tuttavia
(di Felice Celato)
Fra ieri e l’altro ieri il Corriere della Sera ha pubblicato due articoli sui quali (è proprio
il caso di dire) vale la pena di
tornare: prima Giuseppe De Rita ha scritto su Un elettorato incapace di sentimenti condivisi; poi Ernesto Galli
della Loggia ha scritto su La politica e
le colpe di un paese. Dalle citazioni che ho più volte fatto dei due
autori, i lettori si saranno resi conto che, entrambi, godono, presso di me, di
grande rispetto intellettuale e civile, quand’anche non sempre condivida integralmente ciò che dicono (il
distinguo ricorre più spesso per Galli della Loggia che per De Rita); il che,
comunque, non vale certo per i due articoli in discorso le cui analisi, per la
verità, mi vedono entrambe pressoché integralmente consenziente.
Cominciamo dal secondo: in estrema sintesi, Galli della
Loggia pone la brutale domanda: non
abbiamo forse anche noi [Italiani] fatto
qualcosa per meritarci….lo spettacolo….del disprezzo di tipo realmente castale
per gli elettori che la campagna elettorale mette in scena? E conclude
senz’altro per il sì: sono una sparuta
minoranza (e i politici lo sanno!) gli Italiani che vogliono veramente un paese
diverso: dove ‘veramente’ significa essendo disposti a pagare il prezzo
necessario ad averlo. A tutti gli altri, invece, va più o meno bene il Paese
che c’è: naturalmente riservandosi il diritto di imprecare ad ogni momento che
“in Italia è tutto uno schifo”. Il ritratto è quello di un’Italia nella
quale i nodi culturali e sociologici sono infine arrivati al pettine.
De Rita, d’altro canto osserva: per anni ci siamo spesi tutti i sentimenti
politici possibili: la rabbia contro la casta, la delegittimazione della classe
dirigente, l’indignazione e la denuncia anticorruzione, lo sputtanamento anche
volgare di ogni avversario, il «vaffa» corale ed entusiastico nelle piazze, il
plauso alla rottamazione, il moralismo dilagante, la speranza di un uomo o di
un governo «forte», la contrapposizione rabbiosa sulla revisione della carta
costituzionale, i tanti risentimenti personalistici o di piccolo gruppo, il
rancore di quanti hanno sofferto il fermarsi dell’ascensore sociale. E tanto
altro. Se un qualche privato cittadino esprimesse un «lasciatemi stare»,
converrà dire che non avrebbe torto….Nessuno nega, tuttavia, l’importanza degli appelli allarmati
rivolti dalle più alte magistrature
nazionali fino all’ultimo parroco di periferia a non snobbare la prossima
tornata elettorale, richiamando o il dovere alla partecipazione democratica o
più banalmente l’esigenza di un voto utile; ma essi sembrano non del tutto consapevoli del fatto che oggi nel
conclamato disinteresse della gente vince una componente né politica né
culturale, ma antropologica: abbiamo di fronte un elettorato vagotonico,
propenso più a ricaricarsi che a entrare in campo, indifferente a quel che
avviene nella vita comunitaria, appiattito sulle proprie scelte personali,
quasi prigioniero di un sopore difficile da smuovere: un elettorato senza
condivisione di sentimenti collettivi. Il ritratto è quello di un’Italia
che si è persa per strada, forse per le troppe parole.
Se questo è il quadro,
dovremmo concludere che c’è poco da attendersi dal prossimo futuro: l’ elettorato senza condivisione di sentimenti
collettivi e la sparuta
minoranza di Italiani che vogliono veramente un paese diverso sono la disperante
conseguenza di quella crisi antropologica del paese cui abbiamo fatto cenno qui
più volte (del resto utilizzando un’espressione coniata proprio da De Rita). E
dunque, per fare il verso a Joseph Roth, potremmo dire finis Italiae.
Forse anche un pur
tuttavia suonerebbe vacuo, magari apparirebbe un’espressione di rito basata
sulla fiduciosa continuità della storia, sulle sempre possibili sorprese
dell’esistenza, sull’imprevedibile efficacia trasformante delle crisi o,
addirittura, sul concetto religioso di storia come luogo della Salvezza. Il fatto è, però e più semplicemente, che non
mi rassegno a credere che la follia dei tempi sia giunta a tal punto da
cancellare definitivamente la memoria delle nostre eredità, le tracce del
cammino percorso, la tenacia delle nostre risorse, il sapore dei frutti che
abbiamo colto e di quelli che potremmo ancora cogliere, ancorché il mondo sia
cambiato.
E allora, io che detesto coltivare illusioni, un pur tuttavia di pura ribellione lo metto
giù, sperando che sia l’avversativo giusto; il nostro avversativo è l’Europa.
Roma, 1° febbraio 2018
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