La madre di tutte
le paure
(di Felice Celato)
Si parla – in questo buio periodo pre-elettorale –
appropriatamente e opportunamente del dominio delle paure, divenute la linea-guida
delle campagne elettorali di (quasi) tutti i partiti; si è anche detto, con
felice novità lessicale, di un partigiano “paurometro”
partitizzato; e si è fatto un primo elenco (di paure commercializzate
politicamente), forse anche insufficiente per difetto.
Allora, ripescando da un tema corrente, mi pare opportuno
tentare (in meno di settecento parole) una sintesi delle mie personali opinioni
su quella che, forse, è la madre di tutte le paure: la globalizzazione. E lo faccio, per punti sintetici, attingendo alle
personali riflessioni, nutrite di molte letture fatte in questo periodo
sull’argomento (sono diverse e quindi ometto, via via, di citarle, sempre per
stare nel limite delle parole che ci siamo auto-consentiti).
- La globalizzazione è un dato e non una scelta politica; si poteva – forse e teoricamente – classificarla come scelta qualche decennio fa (una scelta, peraltro, difficile da tutelare, per le ragioni quantitative che dirò subito). Non più oggi.
- Siamo, in questa grossa palla (schiacciata ai poli) che chiamiamo Terra, quasi 7,5 miliardi di persone. Il nostro vecchio, piccolo mondo antico (l’Europa + gli USA e Canada) contiene oggi appena il 15 % degli umani, collegato al restante 85 % da una miriade di canali di circolazione (di idee, di uomini, di capitali, di beni, di servizi) nei quali i flussi sono estremamente intensi; esistono ormai decine e decine di global value chains (GVC) dove la produzione di beni e servizi si ripartisce geograficamente secondo vocazioni produttive e logiche economiche (non sempre da accettare integralmente); ovviamente a beneficio dei cittadini consumatori (che non sono una bestemmia ma la molla del benessere).
- Questo nuovo assetto ha visto (dal 1970 ad oggi, quasi 50 anni) passare il totale degli umani da 3,7 miliardi a 7,4 miliardi (il doppio!) e, contemporaneamente, la povertà estrema ridursi da 2,2 miliardi di uomini (nel 1970) a un terzo (700 milioni nel 2015). In altre parole: nel 1970 il 60% degli umani “viveva” in condizioni di povertà assoluta; nel 2015 “solo” il 9%, pur essendo, oggi, gli umani, il doppio di quanti erano cinquant’anni fa! [dati: www.ourworldindata.org].
- La globalizzazione comporta necessariamente una elevata circolazione di persone, anche per motivazioni economiche (magari anche prevalenti su quelle basate sulla fuga da guerre e altre pestilenze).
- Il fenomeno delle migrazioni – così intimamente legato alla globalizzazione e alle dinamiche economiche mondiali – può e deve essere gestito, quanto più ordinatamente possibile; ma ben difficilmente può essere soffocato.
- Lo strabiliante cammino dell’uomo negli ultimi 50 anni ha una implicazione, direi, quasi fisica: che il reddito pro-capite della parte ricca del mondo tende a decrescere e quello della parte povera a crescere (è il noto principio dei vasi comunicanti, che abbiamo studiato in I o in II liceo). Difficile immaginare (nel lungo periodo e fatti salvi scenari tragici) una inversione di tendenza.
- Globalizzazione e migrazioni vanno analizzate con intelligenza (in senso proprio) e gestite con una certa dose di dignitoso pragmatismo. Esse (direi: fatalmente) generano ansietà e paure che hanno innescato (su base molto vasta, di qua e di là dell’Oceano Atlantico) “populismi” e “sovranismi” ampiamente documentati dalle cronache elettorali. Anche queste ansietà e queste paure sono dati di fatto, dai quali ovviamente sarebbe stupido prescindere; non è intelligente (in senso proprio) trattarle come mera “sottocultura”; è, peraltro, riprovevole (e dannoso) eccitarle.
- Il problema che conosciamo però, almeno da noi, è che qui non si parla più: si urla, si demonizza, si insulta, si strumentalizza tutto, in un’ottica che è al tempo stesso di breve periodo (fino al voto conseguito) e di subdola finalità (a voto conseguito vedremo che fare). Mi rifiuto di credere che il livello di imbecillità del paese sia arrivato ad un punto tale che queste povere cose che abbiamo messo in fila non siano comprese da chi, pure, tanta astuzia sa mettere in campo per procurarsi voti tanto mobili ed emotivi. Il vero problema dei cittadini elettori è di non farsi prigionieri di ottiche tanto brevi (e tanto fallaci).
Roma 15 febbraio 2018
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