Lucidi ignavi?
(di Felice Celato)
La prima
settimana di ora solare, come ogni anno, fors’anche perché accoppiata con la
annuale memoria dei morti, mi induce a pensieri mesti, direi autunnali: non che
di solito sia un allegrone (del resto non ce ne sarebbero le condizioni, umane attitudini
a parte!) ma anche nel cupo non mancano le oscillazioni.
Magari per
suscitare l’ironia dei miei lettori indulgenti (che spesso mi consola e sempre
mi diverte), provo a metter in fila il trito pensiero di questo week-end.
Partiamo da
lontano: secondo un principio della tradizione rabbinica, nel valutare
l’operato di una persona non conta tanto ciò che un individuo ha fatto, quanto,
piuttosto, ciò che non ha fatto e che avrebbe potuto fare. Nella tradizione
cristiana il principio è mirabilmente effigiato nella ben nota parabola dei talenti in Mt 25,
14-30 e anche in Lc 19, 12-27, sia pure – forse – qui in una prospettiva più
chiaramente teologica. E del resto il nostro sommo padre Dante pone gli ignavi
(l’anime triste di coloro che visser
sanza ‘nfamia e sanza lodo) giusto appena prima della porta dell’Inferno (caccianli i ciel per non esser men belli né
lo profondo inferno li riceve) e tanto li sdegna che si fa dire da Virgilio
non ragioniam di lor, ma guarda e passa.
Questi
criteri di giudizio, ad un tempo esigenti e realisti, mi tornano in mente, non
senza qualche rimpianto, quando mi soffermo a pensare alla vita trascorsa, alle
responsabilità che essa ci ha accollato e alle modalità con le quali le abbiamo
vissute; al di là degli inevitabili errori connessi coi nostri limiti, a quanto
abbiamo dato e su quanto ci siamo magari risparmiati per ignavia “prudente”.
Ma, in
maniera più inquietante (perché attuale), questi criteri di giudizio mi tornano
in mente quando penso a quel tratto di vita che abbiamo davanti, sperabilmente
più breve di quello trascorso, certamente assai meno intenso e fortunatamente più
appartato, ma non per questo, forse, del tutto privo di responsabilità anche
solo civiche. E pure mi viene in mente un mio storico capo che, in un momento
topico di cambiamento del “nostro” mondo professionale, con favella toscana mi
diceva del peso della lucidità con una specie di apologo (che se volete può
anche essere letto come un “elogio” dell’incoscienza): fra due persone che
corrono insieme verso un precipizio, chi soffre di più – mentre avanza – è
quella che è cosciente del precipizio,
non quella che non ne immagina nemmeno l’esistenza.
Bene: ci
crederete facilmente perché mi sapete un po’ presuntuoso ma, credetemi, sento
l’angoscia della lucidità con la quale mi pare di vedere dove andiamo a
sbattere. E tornando alla saggezza
rabbinica mi domando se c’è qualcosa che non abbiamo fatto e che avremmo potuto
fare per non far parte della schiera di coloro che mai non fur vivi, della nutrita compagnia degli ignavi, magari
lucidi ma pur sempre ignavi.
Mah! Per
fortuna domani sono stato invitato a visitare una importante cantina: la
prospettiva che mi arride è che, di solito, nelle cantine si perde un po’ di
lucidità e si guadagna un po’ di animo.
Roma 4
Novembre 2016 (già festa nazionale della vittoria; oggi Giornata dell’unità
nazionale e delle Forze Armate)
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