En attendant Godot
(di Felice Celato)
Siamo giunti, finalmente, alla fine della
più scassata delle campagne elettorali americane. Oggi si vota ma, giustamente,
un giornale internazionale (non ricordo quale) si domandava proprio l’altro ieri
che cosa resterà nella società americana dei veleni versati con tanta abbondanza
negli animi degli elettori; sia che vinca Hillary Clinton (come si prevede e debolmente
spero) sia che vinca Donald Trump (come molto temerei e Putin spera).
La stessa domanda, con minori implicazioni
internazionali, potremmo, nel nostro piccolo, porcela noi, ancora distanti
quasi un mese da questa interminabile ordalia che è stata organizzata dai
nostri dissennati uomini politici attorno al mitico referendum sulla riforma costituzionale che “tutto cambia” meno ciò
che serviva urgentemente cambiare.
Da noi, non tanto i toni sui contenuti della
riforma hanno impressionato (accesi, senz’altro, ma in fondo, in sé, coerenti
con la natura del dibattito); quanto, invece, quelli agitati dal nostro
Presidente del Consiglio, non solo per difendere la sua creatura con argomenti
e modi che avrebbero dovuto essere propri dei suoi avversari “populisti” dell’antipolitica ma anche
per garantire, di sé stesso, una percezione elettoralistica in linea con quella
propria dei suoi avversari “populisti”
dell’anti Europa, con la “buona” occasione della legge finanziaria e delle
inevitabili beghe con l’UE. Anche qui: che vinca il Sì o il No, che cosa
resterà del nostro sgangherato ruolo di paese fondatore dell’Europa, ricco di
aspirazioni di leadership quanto
povero di azioni appropriate? Ma forse non ci interessa, perché in fondo spesso
siamo così incongrui da pensare di poter fare da soli; o che la corda si può
ancora tirare senza tema alcuna, nemmeno di una crisi di fiducia che possa, da un lato, disunire i tiratori e, dall'altro, stancare i resistenti.
Dicevamo, qualche giorno fa (Spigolature del 23 ottobre), che il
reale sembra diventato la negazione del politico. Il senso voleva essere che la
complessità del reale non ha peso politico, se non negativo: chi pubblicamente
riconoscesse che una certa cosa è complessa o difficile (e che, quindi,
richiede fatica nella comprensione, accuratezza nell’analisi, distinguo
numerosi, giudizi cauti, passaggi complicati, provvedimenti articolati, implementazioni
faticose, etc.) porrebbe a rischio il grado di consenso sul quale si regge il
suo peso politico, se ne ha (o se ne ha ancora). Quindi non a caso i messaggi dilaganti
nella politica (di opposizione ma anche, come abbiamo visto, di governo) sono
tutti e costantemente orientati verso la banalizzazione del reale e la
bi-polarizzazione delle argomentazioni, perché ciò che continuamente urge è
solo la coltivazione del consenso (sia nel momento della sua aggregazione che
del suo mantenimento); e il consenso si coltiva solo somministrando ai suoi
portatori dosi quotidiane e massicce di facili opinioni bi-polari, meglio se
condite con pensieri e slogan di sicura
presa e quindi di basso livello. E chi se ne frega di Machiavelli e delle sue ammonizioni
[ La natura de’ popoli è varia; ed
è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile (poi) fermarli
in quella persuasione ] !
E dunque non dovrebbe sorprenderci l’andazzo
di questa nostra campagna elettorale, della quale continuano ad interessarsi
gli organi di stampa internazionali (è di ieri un lungo articolo sul WSJ),
focalizzati sulle aspettative che noi stessi abbiamo disseminato; cioè che
l’Italia, dal lavacro costituzionale, uscirebbe – se vince il Sì – mondata da
tutte le sue piaghe vere (cumulati ritardi nella crescita, arretratezza culturale,
insufficienza civile e organizzativa, debito soffocante, tassazione opprimente, stanchezza vitale,
crisi sociologica, etc), grazie al bicameralismo imperfetto e a qualche forse
utile segnale di ricompattamento dello Stato.
Vedremo, intanto, stanotte, che succede in
America; e poi che succede da noi, fra 24 giorni, ma soprattutto nei mesi a
venire.
Roma 8 Novembre 2016
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