martedì 8 novembre 2016

Campagne elettorali

En attendant Godot
(di Felice Celato)
Siamo giunti, finalmente, alla fine della più scassata delle campagne elettorali americane. Oggi si vota ma, giustamente, un giornale internazionale (non ricordo quale) si domandava proprio l’altro ieri che cosa resterà nella società americana dei veleni versati con tanta abbondanza negli animi degli elettori; sia che vinca Hillary Clinton (come si prevede e debolmente spero) sia che vinca Donald Trump (come molto temerei e Putin spera).
La stessa domanda, con minori implicazioni internazionali, potremmo, nel nostro piccolo, porcela noi, ancora distanti quasi un mese da questa interminabile ordalia che è stata organizzata dai nostri dissennati uomini politici attorno al mitico referendum sulla riforma costituzionale che “tutto cambia” meno ciò che serviva urgentemente cambiare.
Da noi, non tanto i toni sui contenuti della riforma hanno impressionato (accesi, senz’altro, ma in fondo, in sé, coerenti con la natura del dibattito); quanto, invece, quelli agitati dal nostro Presidente del Consiglio, non solo per difendere la sua creatura con argomenti e modi che avrebbero dovuto essere propri dei suoi avversari “populisti” dell’antipolitica ma anche per garantire, di sé stesso, una percezione elettoralistica in linea con quella propria dei suoi avversari “populisti” dell’anti Europa, con la “buona” occasione della legge finanziaria e delle inevitabili beghe con l’UE. Anche qui: che vinca il Sì o il No, che cosa resterà del nostro sgangherato ruolo di paese fondatore dell’Europa, ricco di aspirazioni di leadership quanto povero di azioni appropriate? Ma forse non ci interessa, perché in fondo spesso siamo così incongrui da pensare di poter fare da soli; o che la corda si può ancora tirare senza tema alcuna, nemmeno di una crisi di fiducia che possa, da un lato, disunire i tiratori e, dall'altro, stancare i resistenti.
Dicevamo, qualche giorno fa (Spigolature del 23 ottobre), che il reale sembra diventato la negazione del politico. Il senso voleva essere che la complessità del reale non ha peso politico, se non negativo: chi pubblicamente riconoscesse che una certa cosa è complessa o difficile (e che, quindi, richiede fatica nella comprensione, accuratezza nell’analisi, distinguo numerosi, giudizi cauti, passaggi complicati, provvedimenti articolati, implementazioni faticose, etc.) porrebbe a rischio il grado di consenso sul quale si regge il suo peso politico, se ne ha (o se ne ha ancora). Quindi non a caso i messaggi dilaganti nella politica (di opposizione ma anche, come abbiamo visto, di governo) sono tutti e costantemente orientati verso la banalizzazione del reale e la bi-polarizzazione delle argomentazioni, perché ciò che continuamente urge è solo la coltivazione del consenso (sia nel momento della sua aggregazione che del suo mantenimento); e il consenso si coltiva solo somministrando ai suoi portatori dosi quotidiane e massicce di facili opinioni bi-polari, meglio se condite con pensieri e slogan di sicura presa e quindi di basso livello. E chi se ne frega di Machiavelli e delle sue ammonizioni [ La natura de’ popoli è varia; ed è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile (poi) fermarli in quella persuasione ] !
E dunque non dovrebbe sorprenderci l’andazzo di questa nostra campagna elettorale, della quale continuano ad interessarsi gli organi di stampa internazionali (è di ieri un lungo articolo sul WSJ), focalizzati sulle aspettative che noi stessi abbiamo disseminato; cioè che l’Italia, dal lavacro costituzionale, uscirebbe – se vince il Sì – mondata da tutte le sue piaghe vere (cumulati ritardi nella crescita, arretratezza culturale, insufficienza civile e organizzativa, debito soffocante,  tassazione opprimente, stanchezza vitale, crisi sociologica, etc), grazie al bicameralismo imperfetto e a qualche forse utile segnale di ricompattamento dello Stato.
Vedremo, intanto, stanotte, che succede in America; e poi che succede da noi, fra 24 giorni, ma soprattutto nei mesi a venire.
Roma 8 Novembre 2016










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