Ri-pensamenti
(di Felice Celato)
Fin dai primi giorni della vita (felice) di questo blog, abbiamo ragionato insieme di
populismo. A distanza di più di cinque
anni dalla prima riflessione in materia (Populismo,
del 16.4.11), vale forse la pena di fare un punto critico di ciò che siamo venuti
dicendo, tenendo in conto quanto nel tempo ci è capitato di osservare (o di
leggere; forse ri-segnalo Del populismo -
Indicazioni di lettura, di Franco Crispini, Pellegrini Editore, 2012).
In particolare, devo dire, mi hanno colpito – e in qualche modo
suggerito questo ri-pensamento – due recenti articoli letti in questi giorni,
che focalizzano peraltro due punti che – nel tempo – avevamo, almeno in parte,
intravvisto anche noi. Il primo articolo è di Natalino Irti, sommo maestro del
diritto civile e coltissimo intellettuale. Scrive dunque Irti (sul Corriere della Sera del 1° ottobre
2016): i risultati di quel metodo
[quello secondo il quale, in democrazia, il modus
decidendi si fonda sul consenso della maggioranza] possono esser discussi, sottoposti a critiche nette e severe, ma non
liquidati come aberrazioni collettive, deviazioni da una razionalità custodita
dai soccombenti; dunque (come dicevamo, magari più aspramente, in Roma e Torino, post del 20.6 u.s.), il populismo come esasperazione,
sia pure demolatrica e
moralistica, di principi politici ai quali siamo pur sempre (io con scettica
moderazione) affezionati.
Dal canto suo, l’altro giorno il direttore de il Foglio, Claudio Cerasa, usa – per la prima volta, a mia memoria
(Sette anni di bolla grillina, ne il Foglio del 10.10.16) – un concetto
apparentemente “scandaloso”, parlando di egemonia
[culturale, NdR] esercitata dal grillismo
(“incarnazione” nazionale del populismo);
“scandaloso” ma, a parer mio, non infondato e, anzi, dimostrato anche dalla
dimensione del fenomeno della quale abbiamo più volte preso atto.
Certo, c'è di mezzo la straordinaria potenza "virale" dei media nel livellare
verso il basso la qualità della cosiddetta “pubblica
opinione”; c’è di mezzo una certa accomodazione mediatica alla caccia al
consenso, qui inteso come audience e,
quindi, come esigenza di arrivare all’attenzione di un target ansioso di ricevere messaggi coerenti con la ri-livellata “pubblica
opinione”; ma c'è anche, come dice Irti (ed è questo, forse, il cuore del
suo articolo), il problema della crisi delle élites (gli illuminati o si fanno illuminanti o si spengono in irosa
solitudine), di cui, del resto, parla anche De Rita da qualche tempo e, da
ultimo, proprio sul Corriere della sera
del 10 agosto 2016: “vedove” delle
ideologie… e incapaci di comprendere il contesto in cui…hanno operato; forse,
aggiungerei io, impreparate a vivere in uno scenario globale che ne trascende
le ottiche ma del quale hanno pensato di essere protagoniste,
presumendo, però, di poterne selezionare gli effetti (tenendosi i graditi e bloccando
i meno graditi). E c’è di mezzo, infine, anche la domanda di nuovo, fomentata
dalla grave insoddisfazione del presente (ancora una volta: globalizzato), che
viene macinata dai meccanismi democratici dell'era in internet e depositata con costanza nella percezione di tutti.
Del resto guardando al mondo, si realizza l’inequivocabile portata
meta-nazionale del fenomeno: avete letto il discorso di Teresa May (leader dei Tories inglesi! E Premier
dell'UK!)? O quelli di Trump (candidato alla presidenza degli Stati Uniti!)
quando si allontana dalle tematiche più strettamente sessiste? O, per tornare
da noi, avete mai fatto caso (sempre a proposito di egemonia culturale) alla
sostanza dei messaggi con cui il nostro premier
sorregge la riforma costituzionale o illustra le proprie idee o i propri
provvedimenti? O a quelli, “eroici”, dei tardi nostri custodi della
“Costituzione nata dalla Resistenza” che ne avversano il cambiamento?
Allora, bisogna fare i conti con questa “egemonia” e, magari,
opporvisi in toto - se si ritiene che
sia portatrice di sole negatività e che una strenua opposizione, senza pieno supporto mediatico, abbia qualche probabilità di successo? O, forse, vale la
pena di rassegnarsi ad essa, cercando almeno di osteggiarne le componenti
più pericolose, sorvolando su quella più “fisiologicamente” democratica?
Insomma e per dirlo con parole mie: è praticabile la separazione della
componente "demolatrica" da quella dello strumento principe del cd populismo, quello
che io considero in sé letale: la propalazione del semplicismo come programma politico e anche come approccio al “popolo”?
Come è facile notare, questo ri-pensamento (inteso come il tornare
a riflettere) non ha prodotto risposte, ma domande e anche ansiosamente
disordinate.
Roma 12 ottobre 2016 (Columbus day)
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