mercoledì 26 ottobre 2016

Après moi le déluge

Parole e fatti
(di Felice Celato)
Dice l’apostolo Giacomo (Gc, 3, 1 e sg)  che se uno non pecca nel parlare, costui è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo. E in effetti – ce se ne rende conto con l’età – la lingua (organo del parlare) è inserita nelle nostre membra, contagia tutto il corpo e incendia tutta la nostra vita, traendo la sua fiamma dalla Geènna;…ogni sorta di bestie e di uccelli.....sono stati domati dall’uomo, ma  la lingua nessuno la può domare.
Il passo è inquietante. Soprattutto – dicevo – si ha ragione di lasciarsene inquietare in tarda età, quando magari ci si è lungamente esercitati, con alterni successi, a domare  altre bestie, rassegnandosi ad un uso “spigliato” della parola quasi come una compensazione per altri magari riusciti contenimenti; e quando si sono avute più occasioni per constatare le rovine che le parole possono generare: le parole sbagliate (l’abbiamo detto qualche altra volta attingendo liberamente ad una forte osservazione di R. Calimani sulla storia degli Ebrei) generano opinioni sgangherate, le opinioni sgangherate danno forma a sentimenti perversi; e i sentimenti perversi diventano fatti, spesso tragici.
E dunque la straordinaria potenza della parola (dalla stessa bocca escono la benedizione e la maledizione, nota ancora san Giacomo) non ha rilievo solo morale ma anche, come spesso accade, politico.
Direi, anzi, che in questa epoca di post-verità mediatizzata (cfr. Spigolature / 9. Post-truth politics, del 12 sett. 2016) la suggestione della parola decettiva è diventata – in politica – un’arma letale di straordinaria potenza, alla quale attingono con sconsiderata costanza uomini di governo e di opposizione. Che ne possano seguire opinioni sgangherate, sentimenti perversi e fatti tragici, non importa alcunché; après moi le déluge, sembrano pensare i nuovi Luigi XV: l’importante è arraffare consenso (o forse: credere di arraffare consenso), per qualche tempo, fino a che non si renda necessaria una nuova seminagione di vento e non ostante un’impossibile incoscienza.
Non sono diverse – nella sostanza – queste considerazioni da quelle che veniamo facendo da qualche tempo; solo che il tanto parlare di questi giorni (su Europa, legge finanziaria, costo della politica, etc.) me ne pare una conferma che aggiunge domande su quel che resterà dopo tanto vento seminato. Prendete il caso di Gorino e leggete attentamente le frasi dei capi-popolo. Stesso linguaggio - stessi sentimenti? - di chi ha seminato vento: sulla  maglietta di Naomo (il capopopolo di Gorino) c’è scritto – leggo dal Corriere della Sera –“A casa! A calci in culo!”. S’intende: anche alle donne incinte, perché “i buonisti si nascondono davanti [?] alle femmine incinte”.
Poi, certo, è bene saperlo, rimane il problema: i numeri ci dicono che la grande maggioranza dei rifugiati è alloggiato in “strutture provvisorie”; problema che nessuno affronta, perché è più facile (o addirittura più conveniente?) parlarne, con le solite lagne dall’una e dall’altra parte.
Hanno chiesto aiuto alla Caritas: qui – per fortuna – è stata seminata un’altra Parola.
In treno, fra Milano e Roma, 26 ottobre 2016




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