Ragionando
(di Felice Celato)
Oggi
è una bella giornata di sole e, di solito, le giornate di sole aumentano la
serenità del mio giudizio che, invece, le nuvole – quelle vere e quelle dell’animo
– spesso rendono più scontroso. Per questo mi sento disposto ad affrontare un
tema che spesso (nelle giornate nuvolose, eh! beninteso!) mi suscita irritazione
verso chi lo affronta con pomposa superficialità. Dunque mi domando: che cosa
pensano coloro (e sono diversi, anche molto autorevoli, perbacco!) che
affermano che la mancanza di lavoro crea una sorta di naturale pabulum per i mali del mondo e – segnatamente,
oggi – per il terrorismo? E che, perciò, occorre “creare lavoro” per combattere
tali mali e quindi anche il terrorismo? Più precisamente la mia domanda è: che
concetto hanno, costoro, del lavoro e delle modalità attraverso le quali si “crea”?
Sgombriamo
il campo da un possibile equivoco: è chiaro a tutti – e certamente a me – che
la condizione di emarginazione sociale derivante da situazioni di
disoccupazione o sottoccupazione è un’autentica piaga sociale che, se
certamente non tocca la dignità di una persona, altrettanto certamente
avvilisce, mortifica “ingiustamente”, deprime e può anche sconvolgere (si pensi
alla disoccupazione di un padre di famiglia!) la mente e l’anima di una
persona; e che, perciò, la disoccupazione va combattuta con ogni mezzo razionale.
Ma, detto questo e solennemente, mi domando: che cos’altro, se non un’economia
accettabilmente efficiente, può “creare” quel lavoro che, dolorosamente, talora
manca?
Certo,
si potrebbe astrattamente pensare che il lavoro si possa “creare” impiegando
persone a scavare buche ed altre persone a richiuderle: in questo caso il
“costo del lavoro” inutile dovrebbe pagarlo qualcuno, mettiamo, lo Stato: la
cosa in sé non sarebbe impensabile, se solo lo Stato ne avesse i mezzi
finanziari [attenzione: il mondo “galleggia” su una marea di debiti – che prima
o poi qualcuno dovrà rimborsare – pari a circa 200 trilioni di dollari –
di cui circa 60 di debito pubblico –, pari al 290% del suo prodotto lordo!] e
concepisse questa sua azione come una transitoria attività anticiclica (cioè
mirante a contrastare una depressione economica), in vista del ristabilimento
di condizioni di efficienza e produttività della sua economia che “riassorbano”
nel tempo gli effetti finanziari negativi di un “lavoro inutile”. Ma, al di
fuori di questa prospettiva – provvisoria, enormemente delicata e rischiosa –
l’unica strada per “creare” lavoro è quella di mantenere l’economia del mondo e
dei singoli stati in una condizione di relativa efficienza e di accettabile
produttività.
E
che cosa “misura” queste relativa efficienza e accettabile produttività? Direi:
la capacità dell’economia di generare ricchezza (intesa per tale
l’accrescimento del “valore” complessivo delle attività umane) per modo che l’”economia”
non “consumi”, solo, risorse. Quindi, genera ricchezza ciò che ripaga i costi
“vivi” della produzione (materie prime, lavoro, impianti, interessi, etc.) e,
in più, genera un avanzo – il profitto! – per chi ha dato vita ad una attività
così benefica come l’impresa che dà lavoro, produce beni, fa girare gli
impianti, paga gli interessi, etc.. Si potrà dire: ma questo profitto, che
sembrerebbe essere la chiave di tutto e della “buona occupazione” in
particolare, che fine fa? E giusto che se lo “pappi” tutto l’imprenditore?
Certamente no! L’imprenditore, come sappiamo (cfr. post “Sloghiamo gli slogan” del 2 maggio u.s.) dovrà pagare le
tasse sul profitto (e così sostenere lo stato che assicura scuole, sanità,
difesa, etc. a tutti i cittadini); poi, magari lo spenderà in beni e servizi
(una benedizione per le altre imprese e i loro lavoratori!) o lo metterà in banca
(che ne farà uso per prestarlo ad altre imprese).
Bene,
questo discorso elementare e semplificato (gli esperti mi perdoneranno le
banalizzazioni!) mi porta a concludere che chi invoca (in gran parte a ragione)
il lavoro come panacea, se non di tutti i mali del mondo, almeno di buona parte
di essi, in realtà sta facendo – anche se spesso non sembra rendersene minimamente
conto – un’ode al profitto! Il che, nella serenità di una giornata luminosa, mi
porta a consentire con lui.
Roma,
28 novembre 2015
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