sabato 28 novembre 2015

Consensi meteoropatici

Ragionando
 (di Felice Celato)
Oggi è una bella giornata di sole e, di solito, le giornate di sole aumentano la serenità del mio giudizio che, invece, le nuvole – quelle vere e quelle dell’animo – spesso rendono più scontroso. Per questo mi sento disposto ad affrontare un tema che spesso (nelle giornate nuvolose, eh! beninteso!) mi suscita irritazione verso chi lo affronta con pomposa superficialità. Dunque mi domando: che cosa pensano coloro (e sono diversi, anche molto autorevoli, perbacco!) che affermano che la mancanza di lavoro crea una sorta di naturale pabulum per i mali del mondo e – segnatamente, oggi – per il terrorismo? E che, perciò, occorre “creare lavoro” per combattere tali mali e quindi anche il terrorismo? Più precisamente la mia domanda è: che concetto hanno, costoro, del lavoro e delle modalità attraverso le quali si “crea”?
Sgombriamo il campo da un possibile equivoco: è chiaro a tutti – e certamente a me – che la condizione di emarginazione sociale derivante da situazioni di disoccupazione o sottoccupazione è un’autentica piaga sociale che, se certamente non tocca la dignità di una persona, altrettanto certamente avvilisce, mortifica “ingiustamente”, deprime e può anche sconvolgere (si pensi alla disoccupazione di un padre di famiglia!) la mente e l’anima di una persona; e che, perciò, la disoccupazione va combattuta con ogni mezzo razionale. Ma, detto questo e solennemente, mi domando: che cos’altro, se non un’economia accettabilmente efficiente, può “creare” quel lavoro che, dolorosamente, talora manca?
Certo, si potrebbe astrattamente pensare che il lavoro si possa “creare” impiegando persone a scavare buche ed altre persone a richiuderle: in questo caso il “costo del lavoro” inutile dovrebbe pagarlo qualcuno, mettiamo, lo Stato: la cosa in sé non sarebbe impensabile, se solo lo Stato ne avesse i mezzi finanziari [attenzione: il mondo “galleggia” su una marea di debiti – che prima o poi qualcuno dovrà rimborsare – pari a circa 200 trilioni di dollari – di cui circa 60 di debito pubblico –, pari al 290% del suo prodotto lordo!] e concepisse questa sua azione come una transitoria attività anticiclica (cioè mirante a contrastare una depressione economica), in vista del ristabilimento di condizioni di efficienza e produttività della sua economia che “riassorbano” nel tempo gli effetti finanziari negativi di un “lavoro inutile”. Ma, al di fuori di questa prospettiva – provvisoria, enormemente delicata e rischiosa – l’unica strada per “creare” lavoro è quella di mantenere l’economia del mondo e dei singoli stati in una condizione di relativa efficienza e di accettabile produttività.
E che cosa “misura” queste relativa efficienza e accettabile produttività? Direi: la capacità dell’economia di generare ricchezza (intesa per tale l’accrescimento del “valore” complessivo delle attività umane) per modo che l’”economia” non “consumi”, solo, risorse. Quindi, genera ricchezza ciò che ripaga i costi “vivi” della produzione (materie prime, lavoro, impianti, interessi, etc.) e, in più, genera un avanzo – il profitto! – per chi ha dato vita ad una attività così benefica come l’impresa che dà lavoro, produce beni, fa girare gli impianti, paga gli interessi, etc.. Si potrà dire: ma questo profitto, che sembrerebbe essere la chiave di tutto e della “buona occupazione” in particolare, che fine fa? E giusto che se lo “pappi” tutto l’imprenditore? Certamente no! L’imprenditore, come sappiamo (cfr. postSloghiamo gli slogan” del 2 maggio u.s.) dovrà pagare le tasse sul profitto (e così sostenere lo stato che assicura scuole, sanità, difesa, etc. a tutti i cittadini); poi, magari lo spenderà in beni e servizi (una benedizione per le altre imprese e i loro lavoratori!) o lo metterà in banca (che ne farà uso per prestarlo ad altre imprese).
Bene, questo discorso elementare e semplificato (gli esperti mi perdoneranno le banalizzazioni!) mi porta a concludere che chi invoca (in gran parte a ragione) il lavoro come panacea, se non di tutti i mali del mondo, almeno di buona parte di essi, in realtà sta facendo – anche se spesso non sembra rendersene minimamente conto – un’ode al profitto! Il che, nella serenità di una giornata luminosa, mi porta a consentire con lui.
Roma, 28 novembre 2015



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