Indipendenza vs.
interdipendenza
(di Felice Celato)
Ecco: io credo che fra queste due parole, questi due “culture”, questi due modi di pensare noi stessi e il nostro futuro, si giochi, forse nel mondo ma sicuramente in Europa e soprattutto in Italia, la partita drammatica del nostro presente e dei suoi sbocchi sul domani prossimo. L’indipendenza, è –beninteso – un sentimento antico e non certo disprezzabile. La storia del nostro Risorgimento è stata costruita su questo sentimento che reagiva all’oppressione di dominazioni esogene, che postulava un sottostante concetto identitario da valorizzare rispetto a regimi allo-cratici. E il fenomeno non è stato certo solo Italiano. Si può dire che con la fine della seconda guerra mondiale e, poi, con la caduta del muro di Berlino, in gran parte dell’Europa la cultura dell’indipendenza abbia segnato un’indiscutibile vittoria, e che l’indipendenza si sia affermata come un’irrinunciabile piattaforma politica delle nuove ed antiche identità nazionali, linguistiche, culturali.
Ma,
già a pochi anni dal 1945, avviata la ricostruzione anche fisica dell’ Europa, progressivamente
tutti i popoli europei hanno maturato la percezione che, al di là
dell’indipendenza, si imponeva un’esigenza nuova di integrazione, di corresponsabilità,
di comunanza di interessi, coerenti con un percorso di sviluppo economico che
già allora appariva ormai interdipendente. L’esplosione della circolazione di
idee, persone, capitali e merci ha segnato l’accelerazione di questa nuova
percezione, cementata anche dalla constatazione delle devastazioni delle guerre
intraeuropee che hanno segnato per secoli la storia del Vecchio Mondo (talora
sfociando in conflagrazioni mondiali). E’ nata così l’Europa, primo ed efficace
riconoscimento dell’interdipendenza come chiave di volta dei nuovi equilibri
continentali; e via via si è anche sviluppato il senso di una più vasta
interdipendenza dei vari attori del mondo moderno e i clusters di riferimento sono passati dalla dimensione continentale
a quella trans-continentale, prima nord-atlantica, ora trans-pacifica.
Oggi,
è inutile negarlo, non solo le pulsioni euro-scettiche trasversalmente
radicatesi in Europa (e se ciò è
avvenuto così diffusamente, una ragione certamente ci sarà!) ma anche qualche élite
politologica raffinata guarda all’integrazione realizzatasi in Europa come ad
un esperimento fallito da revocare, o, quanto meno, da superare in una chiave nuova,
per ora ancora oscura, direi fra l’eutanasia progressiva e la palingenesi in
una nuova dimensione che Jan Zielonka (uno studioso nato nella Slesia polacca, di passaporto olandese, che
insegna ad Oxford e ha casa in Italia, dunque naturaliter pan-Europeo) definisce “neo-medievale” (un modello…caratterizzato da autorità con
competenze sovrapposte, sovranità frazionate, sistemi istituzionali
differenziati ed identità multiple….basato su diverse forme di solidarietà tra
varie reti transnazionali…su contrattazioni, assetti flessibili e incentivi;
cito da Disintegrazione, Laterza,
2015), un modello che concilierebbe il mantenimento degli stati nazionali con
la sopravvivenza, anzi la rigenerazione, di alcuni fra i migliori risultati
conseguiti dall’Europa, pure nel complessivo fallimento di molte sue ambizioni.
Non
so cosa pensare di questa originale prospettiva che, beninteso, muove da
innegabili insufficienze (di più: da innegabili amnesie e contraddizioni) che
hanno caratterizzato, soprattutto in quest’ultimo ventennio, la storia
dell’Unione Europea. Però sono portato a pensare che l’interdipendenza sia
ormai una (direi: necessitata) dimensione del mondo contemporaneo, pur fra
mille contraddizioni e (magari temporanee) retrocessioni; una dimensione
radicata nella natura globale dei mercati (prodotti, servizi, capitali, persone, idee), nei modelli di pensiero e di vita di
gran parte delle giovani generazioni, che ben difficilmente sarà stabilmente
rimpiazzata da sensibilità indipendentistiche, tanto più che queste – dove si
manifestano più clamorosamente – addirittura si esprimono in chiavi
intra-nazionali e regionalistiche (dalla Catalogna alla Scozia, dalla Vallonia
al Nord-Italia) francamente un po’ fanée, fuori del tempo.
Certo
le cosiddette identità nazionali sono lungi dall’essere morte, anche perché
talora sono sollecitate da finalità politiche di corto respiro. Ma rimango
convinto che, qualsiasi ne sia la futura forma istituzionale (e quella immaginata da Zielonka non mi convince appieno), l’interdipendenza
rimane la chiave del presente e (almeno per noi ) la speranza del futuro; a
meno di un prolungato set-back delle
economie mondiali che ci riporti alle nostre dimensioni valligiane (e che mi
viene difficile pensare, non ostanti le inquietudini per il prossimo futuro).
Roma
10 novembre 2015
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