martedì 10 novembre 2015

Letture e scenari

Indipendenza vs. interdipendenza
(di Felice Celato)

Ecco: io credo che fra queste due parole, questi due “culture”, questi due modi di pensare noi stessi e il nostro futuro, si giochi, forse nel mondo ma sicuramente in Europa e soprattutto in Italia, la partita drammatica del nostro presente e dei suoi sbocchi sul domani prossimo. L’indipendenza, è –beninteso – un sentimento antico e non certo disprezzabile. La storia del nostro Risorgimento è stata costruita su questo sentimento che reagiva all’oppressione di dominazioni esogene, che postulava un sottostante concetto identitario da valorizzare rispetto a regimi allo-cratici. E il fenomeno non è stato certo solo Italiano. Si può dire che con la fine della seconda guerra mondiale e, poi, con la caduta del muro di Berlino, in gran parte dell’Europa la cultura dell’indipendenza abbia segnato un’indiscutibile vittoria, e che l’indipendenza si sia affermata come un’irrinunciabile piattaforma politica delle nuove ed antiche identità nazionali, linguistiche, culturali.
Ma, già a pochi anni dal 1945, avviata la ricostruzione anche fisica dell’ Europa, progressivamente tutti i popoli europei hanno maturato la percezione che, al di là dell’indipendenza, si imponeva un’esigenza nuova di integrazione, di corresponsabilità, di comunanza di interessi, coerenti con un percorso di sviluppo economico che già allora appariva ormai interdipendente. L’esplosione della circolazione di idee, persone, capitali e merci ha segnato l’accelerazione di questa nuova percezione, cementata anche dalla constatazione delle devastazioni delle guerre intraeuropee che hanno segnato per secoli la storia del Vecchio Mondo (talora sfociando in conflagrazioni mondiali). E’ nata così l’Europa, primo ed efficace riconoscimento dell’interdipendenza come chiave di volta dei nuovi equilibri continentali; e via via si è anche sviluppato il senso di una più vasta interdipendenza dei vari attori del mondo moderno e i clusters di riferimento sono passati dalla dimensione continentale a quella trans-continentale, prima nord-atlantica, ora trans-pacifica.
Oggi, è inutile negarlo, non solo le pulsioni euro-scettiche trasversalmente radicatesi in Europa  (e se ciò è avvenuto così diffusamente, una ragione certamente ci sarà!) ma anche qualche élite politologica raffinata guarda all’integrazione realizzatasi in Europa come ad un esperimento fallito da revocare, o, quanto meno, da superare in una chiave nuova, per ora ancora oscura, direi fra l’eutanasia progressiva e la palingenesi in una nuova dimensione che Jan Zielonka (uno studioso nato nella  Slesia polacca, di passaporto olandese, che insegna ad Oxford e ha casa in Italia, dunque naturaliter pan-Europeo) definisce “neo-medievale” (un modello…caratterizzato da autorità con competenze sovrapposte, sovranità frazionate, sistemi istituzionali differenziati ed identità multiple….basato su diverse forme di solidarietà tra varie reti transnazionali…su contrattazioni, assetti flessibili e incentivi; cito da Disintegrazione, Laterza, 2015), un modello che concilierebbe il mantenimento degli stati nazionali con la sopravvivenza, anzi la rigenerazione, di alcuni fra i migliori risultati conseguiti dall’Europa, pure nel complessivo fallimento di molte sue ambizioni.
Non so cosa pensare di questa originale prospettiva che, beninteso, muove da innegabili insufficienze (di più: da innegabili amnesie e contraddizioni) che hanno caratterizzato, soprattutto in quest’ultimo ventennio, la storia dell’Unione Europea. Però sono portato a pensare che l’interdipendenza sia ormai una (direi: necessitata) dimensione del mondo contemporaneo, pur fra mille contraddizioni e (magari temporanee) retrocessioni; una dimensione radicata nella natura globale dei mercati (prodotti, servizi, capitali, persone, idee), nei modelli di pensiero e di vita di gran parte delle giovani generazioni, che ben difficilmente sarà stabilmente rimpiazzata da sensibilità indipendentistiche, tanto più che queste – dove si manifestano più clamorosamente – addirittura si esprimono in chiavi intra-nazionali e regionalistiche (dalla Catalogna alla Scozia, dalla Vallonia al Nord-Italia) francamente un po’ fanée, fuori del tempo.
Certo le cosiddette identità nazionali sono lungi dall’essere morte, anche perché talora sono sollecitate da finalità politiche di corto respiro. Ma rimango convinto che, qualsiasi ne sia la futura forma istituzionale (e quella immaginata da Zielonka non mi convince appieno), l’interdipendenza rimane la chiave del presente e (almeno per noi ) la speranza del futuro; a meno di un prolungato set-back delle economie mondiali che ci riporti alle nostre dimensioni valligiane (e che mi viene difficile pensare, non ostanti le inquietudini per il prossimo futuro).
Roma 10 novembre 2015








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