venerdì 30 ottobre 2015

Corruzione

Reato e peccato
(di Felice Celato)
Si sarebbe detto che la discesa di Dio in terra nella persona del Suo Figlio avrebbe potuto essere più che sufficiente per scardinare per sempre il peccato dal cuore degli uomini e dalla faccia della terra. Ma, come sappiamo, ciò non è avvenuto; tant’è che dobbiamo ancora contare (per nostra fortuna) sulla misericordia di Dio piuttosto che sulla nostra giustizia (in senso Paolino). E non è il caso di diffonderci qui sulle fondate ragioni che ci siamo dati per tutto ciò. Anche i grandi scuotitori di coscienze che si sono affacciati nel corso della storia con la parola bruciante, col pensiero forte o con l’esempio stupendo (da Savonarola a san Francesco, da Socrate a Kant) non hanno avuto (nè potrebbero aver avuto o avere in futuro) successo maggiore.
Dunque – venendo, ahimè, a noi e ai nostri tempi – non saranno i Di Pietro, i Borrelli o i Cantone ad estirpare la mala pianta della corruzione, checché loro stessi ne abbiano pensato o ne pensino o ne facciano pensare; perché, la corruzione, prima di essere un odioso crimine, è anche un grave peccato e – come tale – ha le sue radici nel cuore  e nella mente dell’uomo e nell’uso perverso che fa della sua libertà.
Certo, sul piano della legge, nuove norme, nuovi “codici”, nuove “grida” potranno – talora – rendere più difficile (o solo più complicata) la commissione del reato; o talora addirittura agevolarlo, come si dovrebbe dire alla luce della lettura che ora diamo di precedenti “grida” draconiane che, allora, ci erano apparse efficaci. Ma – mettiamoci l’animo in pace – con la corruzione (reato e peccato) avremo, ancora e a lungo, a che fare.
Detto questo, ci si può domandare (e lo fa, per esempio, molto bene Di Vico sul Corriere della sera di oggi) che tipo di anticorpi occorrerà produrre per limitare la portata del reato/peccato di corruzione: restringere lo Stato (che è di per sé un bene da perseguire con urgenza e perfino nelle nostre teste!) è senz’altro una strada che può aiutare, come argomenta Di Vico; ma episodi di corruzione si sono verificati - in Italia ed all'estero -anche in campo privato, anche in forme astutamente manipolative (si pensi alla nota questione dell’Euribor); e allora?
Mah! Forse non ci resta che sperare nella coltivazione delle coscienze che – beninteso – parta dalla percezione del male della piccola corruzione, quella di ogni giorno e di molti; per arrivare, ovviamente, ai fenomeni più conclamati e di pochi (fenomeni dei quali, naturalmente, siamo mediati e provvisori testimoni). Ma a valle di ciò, la corruzione resterà pur sempre un diffuso peccato e un corrente reato. E gli uomini continueranno a praticarla finché restano uomini, quand’anche lo Stato si restringa o quand’anche le coscienze siano meglio formate e a prescindere dalle norme che venissero escogitate. Del resto, per rimanere nel legale, che cosa sono le norme se non un prodotto della cultura? Anzi, come meglio diceva in un amaro articolo qualche giorno fa il prof. Ainis sempre sul Corriere, “che cos’è la legge? Uno specchio dei nostri amori e dei nostri umori” (cosa quanto mai vera in Italia dove, scarsi di cultura, ci affidiamo assai più che altrove agli umori). E se le norme sono un prodotto della cultura (un esempio paradossale ed esemplificativo, per coloro che non hanno studiato filosofia del diritto: la nostra cultura è basata sulla proprietà, e per questo puniamo il furto), le norme non possono che rifletterla; e quindi continueremo a condannare la corruzione mentre continueremo (ahinoi!) a praticarla, perché, magari, ce l’abbiamo nell’animo; infatti, come dice san Paolo (Rm, 7,21), “in me c’è il desiderio del bene non la capacità di attuarlo: compio infatti  non il bene che voglio ma il male che non voglio”.
E allora? Ci arrendiamo alla corruzione? Certo che no! Continuiamo a combatterla, ovunque e sempre, anche con le leggi (magari sottraendoci, nel porle, al fluttuare degli umori); ma, soprattutto, continuiamo a vigilare sulla nostra coscienza del male grave insito in ogni fenomeno corruttivo, dal piccolo (diffuso) al grande (meno diffuso ma più clamoroso); ma con una certezza: non saranno le leggi ad estirpare la corruzione ma, solo, potrà contrastarla  la desta consapevolezza” (G. Cucci: L’arazzo rovesciato, Cittadella 2010) del male insito nella mercificazione dell’agire, nello scambio oscuro fra denaro (o “altra utilità”) ed illeciti favori; e nella convinzione che “i cattivi [non] sono sempre gli altri” (T. Todorov, Di fronte all’estremo, citato ne L’arazzo rovesciato, pg 69) perchè “la banalità del male” comincia spesso nel nostro quotidiano.

Roma, 30 ottobre 2015

Defendit numerus / 4

Nuovi e vecchi indicatori
(di Felice Celato)
Segnalo a tutti gli appassionati di numeri questo eccellente lavoro (vedi link, sotto) del governo Francese (eccellente per ampiezza, chiarezza e leggibilità) sui Nouveax indicateurs de richesse in Europa (segnalati dall’ottimo giornale in rete First-on-line). Gli indicatori, ovviamente, non sono nuovi in sé, ma nella loro complessiva composizione, organizzata per evidenziare i possibili pilastri di una strategia di crescita intelligente, soutenable et inclusive.
Lo studio, come è ovvio, si rivolge essenzialmente ai lettori francesi ma, per ciascuno dei 10 nuovi indicatori di ricchezza, al paragrafo 4 in ogni capitolo dello studio c'è un sintetico richiamo al posizionamento relativo di ciascun paese europeo (Italia inclusa, ovviamente) rispetto alla Francia e alla media Europea; ed è per verificare questo (nostro) posizionamento che l'ho utilizzato.
Dunque, i "nuovi indicatori" sono: (1) il tasso di occupazione, generale e giovanile; (2) l’investimento in ricerca; (3) l’indebitamento; (4) la speranza di vita in buona salute; (5) il grado di soddisfazione della vita; (6) la diseguaglianza nei redditi; (7) la diffusione della povertà; (8) il grado di abbandono precoce degli studi; (9) le emissioni di CO2; (10) il grado di tutela dei suoli.
Per quanto ci riguarda, siamo messi male o malissimo in molti indici; bene o addirittura benissimo in qualche altro. Piuttosto che provare a sintetizzare in una tabella (cosa che….non mi è facile, come avrete visto altre volte), consiglio vivamente di sfogliare lo studio; qui invece segnalerò gli indici in cui siamo messi peggio e quelli in cui siamo messi meglio.
Dunque siamo messi male (sia rispetto alla Francia che all’Europa) in tasso di occupazione giovanile, spese per la ricerca, debito pubblico, grado di soddisfazione della vita, diseguaglianza dei redditi, tasso di povertà, abbandono precoce degli studi (qui, anzi, siamo messi malissimo) e grado di tutela del suolo.
Siamo invece messi meglio in debito privato (famiglie e imprese non finanziarie), speranza di vita in salute (22,6 anni - dei quali ne ho già consumato un buon terzo - oltre i 60), quantità di emissioni di CO2.
Complessivamente, se volessimo tracciare una sintesi sommaria del nostro posizionamento nella “euro-radiografia”, direi che si conferma quanto altre volte abbiamo detto: l’Italia non è un paese per giovani; le famiglie e le imprese sono ancora (con tutti i loro problemi) l'affaticata spina dorsale del paese; la propensione verso il futuro (ricerca, istruzione) è debolissima; gran parte di ciò che è affidato allo stato (debito pubblico, tutela del suolo, ri-distribuzione dei redditi) fa acqua da tutte le parti.
Certo, poi abbiamo tante altre cose che “il tutto il mondo ci invidia” (la pizza, la dieta mediterranea, il parmigiano, le spiagge, le città d’arte, il clima, etc); per questo, forse, abbiamo più ampie speranze di vita in salute, anche se per tutta la vita siamo tutt’altro che soddisfatti.
Roma 30 ottobre 2015



 Link

http://www.gouvernement.fr/sites/default/files/liseuse/5711/master/projet/Les-nouveaux-indicateurs-.pdf

domenica 25 ottobre 2015

Esercizi di compagnia

De amicitia o De senectute?
(di Felice Celato)
E’ curioso che un lungo articolo sull’amicizia nelle varie fasi della vita sia comparso, sulla rivista americana The Atlantic, nella rubrica dedicata alla salute. Eppure, sembra, le varie ricerche che l’articolo cita documentano come l’amicizia nelle varie fasi della vita – ancorché soggetta a tutte le modificazioni che il tempo porta con sé – rimanga un pilastro della “felicità” personale che, almeno negli USA (ma credo anche qui da noi), è ritenuta un fattore importante della nostra salute (forse non solo psichica).
Delle evoluzioni dell’amicizia nei tempi della vita, non vale la pena di occuparsi in questo blog, frequentato in grandissima prevalenza da seasoned readers (del resto l’articolo, chi ha più giovanili interessi, lo può trovare facilmente sul sito di The Atlantic). L’amicizia, dice l’articolo, è una relazione senza legami eccetto quelli che tu scegli di allacciare, basata su tre fondamentali aspettative (somebody to talk to, someone to depend on and someone to enjoy, qualcuno con cui parlare, qualcuno su cui contare, qualcuno con cui condividere qualche piacere) il cui peso relativo tende a mutare negli anni, secondo i tempi e le circostanze  della vita nelle quali le amicizie si sviluppano; e, in fondo, l’osservazione di queste evoluzioni è sufficientemente facile (almeno credo) per ciascuno di noi. Noi siamo ormai nel secondo tempo del film e vale la pena forse solo di considerare ciò che ci resta da vivere prima del The End.
La mia esperienza di adulto più che stagionato mi porta a riguardare indietro al mio mondo delle amicizie con animo, in fondo, contento: della lontana adolescenza, conservo, forse, un solo amico, che vedo raramente ma sempre con la sensazione di riprendere discorsi brevemente interrotti; della mia prima gioventù, solo….una moglie e una coppia (mai deserta) di carissimi amici; dell’università, assolutamente nessuno; del lavoro, alcuni e diversi ma ormai tutti passati attraverso il vaglio della consonanza intellettuale: dimenticati (almeno spero) i biglietti da visita, le vere amicizie sono rimaste il frutto di frequentazioni ormai perse ma durante le quali si è costruita un’affinità di visioni, di sensibilità, di complicità intellettuali che si rinnovano in tutti gli incontri, indipendentemente dalla loro frequenza. Il vaglio dell’età più che matura, la libertà da frequentazioni funzionali alla vita lavorativa, e forse anche il maggior tempo che ci è consentito dedicare alla cura del nostro pensiero e del nostro spirito, mi hanno portato a selezionare, anche dopo finita la vita più intensamente lavorativa, un piccolo numero di amici, nuovi o estratti dalle varie fasi del tempo (e anche, nei limiti del possibile, via via fra loro integrati), ai quali attribuisco (forse egoisticamente) il beneficio della “salubrità”: scambiarsi le idee, magari litigare aspramente su di esse mantenendone il filo nel tempo, alimentare reciprocamente le rispettive opinioni, anche coi mezzi della moderna comunicazione (come questo blog o qualche mail durante la settimana), mi paiono tutti esercizi di compagnia, come di una scorta  reciproca sul cammino della anzianità (quindi somebody to talk to and someone to enjoy ma anche, in un senso forse nuovo, someone to depend on).
Forse, come rileva l’articolo, l’età anziana esige una cura più gentile dell’amicizia; e, talora, questo tratto è il più impegnativo quando il tempo ci ha reso più aspri e quando le nostre opinioni si sono fatte più esperte e, magari, anche più nette. Ma – ne sono convinto – il salubre bene dell’amicizia fortemente consiglia questo sforzo che è reciproco allenamento in vista di quella che il cardinale Martini chiamava “l’età in cui si impara a mendicare” ( Carlo Maria Martini :Le età della vita, Mondadori, 2010)
Roma 25 ottobre 2015





Defendit numerus / 3

Proporzioni
(di Felice Celato)
Il grande interesse che la stampa mostra di nutrire per il Sinodo della Chiesa cattolica appena conclusosi (per esempio, dal Corriere della Sera del 25 ottobre: titolo di apertura in prima pagina, poi le pagine intere 2,3 e 5) ed in particolare per la ben nota questione della comunione ai risposati, mi spinge a due considerazioni: (1) forse sarebbe stato meglio scegliere una gestione meno clamorosa per questa assise largamente equivocata dai media; l’interesse suscitato è – lo do per certo – se non malizioso almeno largamente meta-oggettivo, cioè la materia in sé non interessa che a pochi lettori, per i quali, peraltro, molte visuali mediatiche dell’evento risultano addirittura irritanti (certamente per me è così). (2) Il clamore suscitato dal tema che invece ha affascinato i media, mi pare largamente sproporzionato all’entità dei supposti sottostanti “bisogni” (qualsiasi cosa voglia dire questo termine applicato alla materia de qua, squisitamente spirituale).
Per confortare questa osservazione, proverò a sintetizzare alcuni numeri che traggo da una non recente indagine sociologica del Censis (ha giusto 10 anni, quando papa era il popolarissimo ed amatissimo San Giovanni Paolo II); mi mancano dati più recenti ma  credo che l’analisi sia  tuttora significativa. Dunque su 100 italiani, secondo il campione statistico considerato dal Censis, 57,8% si dichiara cattolico praticante e il 28,7% cattolico non praticante (il resto, 13,5%, si dichiara indifferente, ateo o di altra religione). Ma, dei sedicenti praticanti (cioè di quei 57,8) solo 21,4 vanno a messa (almeno) settimanalmente e di questi suppongo – la stima è tutta mia e totalmente empirica – più o meno la metà (diciamo 12 su 21,4) chiede la comunione; gli altri 36,4 ci vanno (a messa) solo saltuariamente e – suppongo – altrettanto saltuariamente si accostano alla comunione Se ci riportiamo al 100 del campione, possiamo così dire che la comunione “riguarda” poco più del 10-12% degli italiani, pari, grosso modo, al  20% dei sedicenti praticanti (infatti 12/57,8= 0,21). Fra i divorziati risposati immagino che l’interesse per l’ostia consacrata possa essere sensibilmente più basso di quello rilevabile presso i praticanti. In ogni caso non me la sarei sentita di prevedere lunghe code davanti agli altari (anzi, prima davanti ai confessionali!) nemmeno se – come sembrava auspicare molta stampa tifosa in materia che tifo non ammette – la comunione ai divorziati risposati fosse stata totalmente “liberalizzata” (qualsiasi cosa voglia dire questo termine applicato alla materia de qua).
Mi rendo conto che la questione mal si presta ad un’analisi quantitativa; però il clamore sì.

Roma 25 ottobre 2015

mercoledì 21 ottobre 2015

Radici

Quel matrimonio fra ragione e rivelazione
(di Felice Celato)
In questi giorni sto trascurando la lettura dei giornali italiani (in fondo quello che c’è scritto l’avevo già letto, da una decina d’anni a questa parte, tutti gli anni, in autunno, gli inutili anni che abbiamo sprecato) e – per converso – incrementando la frequentazione di quelli stranieri, sicuramente più….ariosi.
Bene: questa fuga dal ripetitivo mi ha fatto imbattere in un articolo per certi aspetti inconsueto su un giornale (il Wall Street Journal) di orientamento economico e per di più americano: “In difesa della cristianità” di Bret Stephens (premio Pulitzer nel 2013, editorialista del WSJ e già direttore del Jerusalem Post). Il sottotitolo dell’articolo (non ne copio il link perché rimanderebbe all’edizione a pagamento del WSJ e forse avreste qualche difficoltà ad aprirlo) è già eloquente: “avendo ignorato la sua eredità culturale, l’Europa si domanda perché la sua casa crolli”; ma proverò a farvene una sintesi.
La tesi di fondo rimanda – se vogliamo – in qualche modo al “messaggio” di Houellebecq (Sottomissione), prendendo spunto dai colloqui Germano-Turchi di questi giorni: potrebbero sopravvivere a lungo le tradizioni politiche liberali europee e le radici culturali e religiose dell’Europa in  mezzo ad un massiccio afflusso dell’ordine di decine di milioni di mussulmani? No, - risponde Stephens – se hai un’immigrazione che resiste all’assimilazione e paesi ospitanti che fanno solo timidi tentativi di porre pretese civiche; no, se hai una politica dell’immigrazione superficiale, basata solo su slanci di auto-compiacimento morale che danno inevitabilmente luogo a reazioni politiche populiste (“e poche cose sono così pericolose per la democrazia quanto un populista con una mezza ragione”); se sei in queste condizioni – in cui versa l’Europa – non potrai sopravvivere a lungo! L’Europa sta marciando verso la sua fine non a causa della sua sclerotica economia, o della sua stagnante demografia, o per le disfunzioni del suo superstato. E nemmeno i flussi di migranti dal Medio Oriente e dall’Africa ne sono la vera causa. Questi popoli disperati sono giusto l’ultima rigida brezza sul legno di una civiltà disseccata. E' a causa della sua incompetenza morale che l'Europa sta morendo. Soprattutto perché –ed eccoci al titolo – ha rinunciato alle sue radici, nelle quali si è manifestato quel matrimonio tra ragione e rivelazione che ha prodotto una civiltà fatta di supremazia tecnologica temperata da umano rispetto.
L’articolo – sul quale vale la pena di riflettere – si conclude con una breve citazione di Joseph Ratzinger (e sapete quanto bene mi disponga una citazione del Papa Emerito!): “E’ lodevole che l’Occidente stia provando ad essere più aperto, più comprensivo dei valori degli altri, ma ha perso la sua capacità di autostima. Tutto quanto vede della sua storia è meschino e distruttivo, non è più in grado di percepire quanto c’è di grande e di puro. Ciò di cui l’Europa ha bisogno, se vuole veramente sopravvivere, è una nuova auto-accettazione, ancorché un’auto-accettazione critica e umile.Una voce – conclude l’articolista – ormai fuori moda ma che, proprio per questo, vale la pena di ascoltare.
Fin qui l’articolo, da me malamente tradotto e sommariamente sintetizzato. Io non so se davvero l’Europa stia morendo; certamente bene non sta, se si deve trarre una diagnosi da ciò che si vede e non solo in Italia. E’ vero: per nostra fortuna non tutto ciò che si vede è; e non tutto ciò che è si vede. Ma anche è vero, come dice il Talmud, che noi non vediamo le cose nel modo in cui sono; le vediamo nel modo in cui siamo.
Roma 21 ottobre 2015