domenica 10 dicembre 2017

Letture

Dappertutto e rasoterra
(di Felice Celato)
Eccomi qua, in pieno Avvento (tempo di attesa e di speranza), a segnalare una lettura che per molti sarà consolante; e, forse,  anche fonte di speranza (mondana).
Si tratta di una corposa silloge, che raccoglie, in successione, le introduzioni (cioè le Considerazioni Generali) ai 50 rapporti Censis “firmati”, fra il 1967 e il 2016, dal fondatore, animatore, Direttore e poi Presidente, appunto, del Censis, Giuseppe De Rita. Dappertutto e rasoterra si intitola il volume (edito da Mondadori e appena uscito) per riprendere, ad un tempo, forse l’ottica di osservazione del Censis ma anche la percezione della vitalità basica del tessuto sociale per tanti anni analizzato, studiato e condensato da De Rita e dai suoi.
Data la struttura del volume, la lettura (che nel mio caso sarebbe, in gran parte, ri-lettura) è un esercizio che postula tempo (il libro prende 850 pagine ed  esiste anche in e-book) e gusto per la  storia (in questo caso storia della società Italiana); ma l’ampia introduzione dell’autore (che è ciò che qui brevissimamente commento) aiuta a cogliere il filo conduttore che lega nel tempo le evoluzioni del nostro corpo sociale, dalla società semplice uscita dalla guerra a quella più articolata e ricca dei secondi ani ’60, alla vitalità diffusa (appunto dappertutto e rasoterra) del decennio ’70, fino alla crisi antropologica ed alla società del rancore dei giorni nostri, frutto – dice De Rita – del blocco dell’ascensore sociale, che ha fermentato delusioni e rabbie diverse sempre più connotate dal lutto di ciò che non è stato.
Ma De Rita – l’ho scritto più volte in questi anni – non è un gelido analista dei fenomeni sociali; è anche, a suo modo, un medico pietoso che si compiace dei sintomi buoni e che sa che “il paziente” ha bisogno di vederli, di volerli vedere e di sperare con tutte le forze che essi prevalgano su quelli cattivi. E allora – come aveva fatto nelle Considerazioni Generali del 2015 – con slancio vitale intravvede una società che, pur in un alto pericolo di sconnessione, riesce a far storia su se stessa, via via inventando una nuova fase dell’identità nazionale con naturalezza e silenziosa progressione; ed affida ad un invitto “resto” (che non accede al proscenio e alle luci della visibilità mediatica) non solo una residua resistenza al degrado ma un ulteriore movimento del nostro sviluppo, basato sulla riappropriazione della nostra identità collettiva.
Insomma: l’autore è uno dei “grandi vecchi” della nostra migliore intelligenza che, come ho detto più volte, vale sempre la pena di ascoltare e leggere con attenzione; l’introduzione al suo libro è da leggere, il libro da conservare come memoria dei cinquant’anni che abbiamo vissuto e creduto di capire.
Roma 10 dicembre 2017


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