Dappertutto e rasoterra
(di Felice Celato)
Eccomi qua, in pieno Avvento (tempo di attesa e di speranza),
a segnalare una lettura che per molti sarà consolante; e, forse, anche fonte di speranza (mondana).
Si tratta di una corposa silloge, che raccoglie, in
successione, le introduzioni (cioè le Considerazioni Generali) ai 50 rapporti
Censis “firmati”, fra il 1967 e il 2016, dal fondatore, animatore, Direttore e
poi Presidente, appunto, del Censis, Giuseppe De Rita. Dappertutto e rasoterra si intitola il volume (edito da Mondadori e
appena uscito) per riprendere, ad un tempo, forse l’ottica di osservazione del
Censis ma anche la percezione della vitalità basica del tessuto sociale per
tanti anni analizzato, studiato e condensato da De Rita e dai suoi.
Data la struttura del volume, la lettura (che nel mio caso
sarebbe, in gran parte, ri-lettura) è un esercizio che postula tempo (il libro
prende 850 pagine ed esiste anche in e-book)
e gusto per la storia (in questo caso
storia della società Italiana); ma l’ampia introduzione dell’autore (che è ciò
che qui brevissimamente commento) aiuta a cogliere il filo conduttore che lega
nel tempo le evoluzioni del nostro corpo sociale, dalla società semplice uscita dalla guerra a quella più articolata e ricca dei secondi ani ’60,
alla vitalità diffusa (appunto dappertutto
e rasoterra) del decennio ’70, fino alla crisi antropologica ed alla
società del rancore dei giorni
nostri, frutto – dice De Rita – del blocco dell’ascensore
sociale, che ha fermentato delusioni
e rabbie diverse sempre più connotate dal lutto di ciò che non è stato.
Ma De Rita – l’ho scritto più volte in questi anni – non è un
gelido analista dei fenomeni sociali; è anche, a suo modo, un medico pietoso
che si compiace dei sintomi buoni e che sa che “il paziente” ha bisogno di
vederli, di volerli vedere e di sperare con tutte le forze che essi prevalgano
su quelli cattivi. E allora – come aveva fatto nelle Considerazioni Generali
del 2015 – con slancio vitale intravvede una
società che, pur in un alto pericolo di sconnessione, riesce a far storia su se
stessa, via via inventando una nuova fase dell’identità nazionale con naturalezza
e silenziosa progressione; ed affida
ad un invitto “resto” (che non accede al
proscenio e alle luci della visibilità mediatica) non solo una residua
resistenza al degrado ma un ulteriore
movimento del nostro sviluppo, basato sulla riappropriazione della nostra
identità collettiva.
Insomma: l’autore è uno dei “grandi vecchi” della nostra migliore intelligenza che, come ho detto più volte, vale sempre la pena di ascoltare e leggere con attenzione;
l’introduzione al suo libro è da leggere, il libro da conservare come memoria
dei cinquant’anni che abbiamo vissuto e creduto di capire.
Roma 10 dicembre 2017
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