Il cuore e la ragione
(di Felice Celato)
Domanda: come sarà il 2018? Risposta sicuramente saggia: non
lo sappiamo!
Domanda: vabbè, ma come ce lo aspettiamo? Risposta cauta:
dipende!
Domanda: da che dipende? Risposta auspicabilmente saggia:
dipende da quel che pensiamo del presente e dalla nostra propensione a
proiettare sul futuro l’immagine del presente; e quindi dalla nostra speranza
di vedere ripetersi le cose buone del presente o dal nostro timore di vedere
ripetersi le cose cattive del presente. Anzi, poiché – come direbbe
sant’Agostino – il presente, nell’istante in cui lo consideriamo presente, è
già passato, forse ciò che proiettiamo sul futuro (sperandolo o temendolo) è il
passato, magari recente perché più recentemente lo abbiamo conosciuto.
Lasciando da parte ciò che è concretamente stato per ciascuno
di noi, il 2017 è stato per il nostro paese un anno futile: non ostanti le
favorevoli condizioni per farlo (forse addirittura irripetibili nel loro
sovrapporsi), non abbiamo affrontato nessuno dei problemi che avremmo dovuto
affrontare (produttività sistemica, debito pubblico, riforma dello stato e
delle sue opprimenti propaggini) e abbiamo vivacchiato, dopotutto nemmeno male,
della ripresa del mondo; anzi – con la riforma elettorale – abbiamo messo saldi
presupposti perché il 2018 sia più futile, più rissoso e più instabile del 2017
.
E tuttavia io sono lungi dal ritenere che l’Italia sia
l’ombelico del mondo. Ma, guardandomi d’attorno, purtroppo mi pare di poter
dire che il 2017 non sia stato un buon anno nemmeno per il mondo o, almeno, per
quello occidentale: si è consolidata – è vero – una diffusa ripresa economica (
della quale, come dicevo, in parte abbiamo beneficiato) ma complessivamente si
è accresciuto il grado di “nervosismo” del nostro mondo, per l’appannarsi di
alcune storiche leadership
(l’americana prima di tutto) e per l’emersione di fragilità politiche e
strutturali tutte europee. Come abbiamo certamente notato (si veda, da ultimo,
il post Letture del 3 dicembre) esiste
anche una probabile matrice comune per tali scuotimenti: le società avanzate
sentono il pungolo della globalizzazione e lo esorcizzano coltivando oscure
aspirazioni isolazioniste e protezioniste cui corrispondono confuse domande di protezione,
in gran parte fondate sul rimpianto di un mondo che non c’è più e che – a meno
di tragici scenari – ben difficilmente tornerà ad esserci.
E dunque, anche considerando lo scenario allargato, stando al
2017 non ci sarebbero solidi motivi per attendersi un grande 2018, né in Italia
né nel mondo occidentale.
Purtuttavia – lo si sarà capito altre volte – rispetto al
mondo nel suo complesso non riesco ad essere pessimista (come mi riesce tanto
bene quando penso al nostro Paese): non ostanti gli errori commessi e le
minacce planetarie (energia, risorse naturali), la scommessa sul futuro (in
buona sostanza: la fiducia che la “torta globale” possa continuare a crescere
anche più della crescita del numero degli umani, come in fondo sta avvenendo da
molti anni) mi pare ancora fondata, per quanto intense possano essere le turbative legate alla macro-redistribuzione della ricchezza implicata dalla
globalizzazione. Certamente questo tipo di approccio al futuro postula una
capacità di comprensione dei fenomeni in corso che troppo spesso cozza con le
prospettive di breve termine delle politiche. Da questo punto di vista, manca –
e questo è un tema fondamentale – l’apporto di una vera leadership culturale che possa assecondare una diffusa presa di
coscienza dei “rimescolamenti” in atto nel mondo: il mondo lato sensu nord-occidentale non sarà più ricco come lo è
diffusamente stato per secoli; e quello lato
sensu sud-orientale vedrà sempre più rapidamente allontanarsi le larghe
sacche di povertà del suo passato, fino a tendere a livelli della qualità della
vita simili a quelli del comparto nord-occidentale; la dimensione e la dinamica
degli aggiustamenti già vorticosamente in corso dipenderà in larga parte dai
tempi della redistribuzione anche delle supremazie culturali e tecnologiche (e
anche militari, inutile ogni vuoto irenismo).
Detto ciò – me ne rendo conto – del 2018 sappiamo ancora meno
di quanto dicevamo all’inizio. Sul futuro, a poco serve il nostro ragionare; meglio
affidarsi alle aspettative del cuore: e dunque, auguri di cuore a tutti!
(Ma – dice Manzoni
– che sa il cuore? Appena poco di quello
che è già accaduto).
Roma 28 dicembre 2017
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