Aspettando il nuovo ardore
(di
Felice Celato)
Quasi
sei anni fa (era il novembre del 2011) segnalavo su questo blog una lettura che, allora, mi parve un seme serio di speranza
civile (o forse, più modestamente, un'ansia di speranza civile): di G. De Rita
e A. Galdo, L’eclissi della borghesia
(Laterza).
Il senso
del libro, ricco di dati e di “viste” ragionate, era in estrema sintesi questo:
l’eclissi della borghesia italiana (*) ha
lentamente trascinato la società italiana verso una deriva antropologica…..intrappolando
il Paese nella palude di una gestione più
o meno burocratica dell’esistente….mentre il ceto medio – omologato negli stili di vita – si andava dilatando…con
il carburante della spesa pubblica diventata una polizza assicurativa, le cui rate non sono ancora scadute. Da
questa inesorabile deriva, l’Italia – scrivevano De Rita e Galdo – potrà uscire
solo a condizione che si determini (e, allora, gli autori ne identificavano
qualche tenue segnale) un ardore nuovo,
fatto di rilancio di virtù civili, di tensione in avanti, anche di desiderio vitale, di nuove mobilitazioni, di energia magnetica, di nuovo profondo della nostra coscienza.
Non
è il caso di addentrarsi, qui e ora, sull’attualità della diagnosi (o anche sulla
“tenuta” della sperata via d’uscita);
dirò solo che il libro mi è tornato in mente soffermandomi a considerare (come
faccio spesso, angosciatamente) la dinamica valoriale, declinante o addirittura
recessiva, della classe dirigente contemporanea (e anche di quella che ha
cessato da poco di esserlo). La fortunata espressione di Julien Benda che dava
il titolo ad un libro letto in anni giovanili (che non trovo più, né
libro…né anni giovanili) dà il senso a
questo recedere delle élites: il tradimento dei chierici è appunto il
disimpegno da quella produzione di valori che è propria degli intellettuali,
intesi in senso lato; la resa alla deriva
antropologica dei nostri tempi; per stanchezza o accomodamento alle ondate
mediatiche che in fondo la stessa classe dirigente magari cavalca senza più governarle
(è il caso anche di qualche autorevole
giornale, per tacere della mucillagine culturale e valoriale dei messaggi
televisivi). L’altro giorno alla presentazione del dibattito sull’imbagascimento del lessico collettivo,
De Rita ha citato, credo letteralmente, uno scorcio incredibile di turpiloquio
e di pensiero abietto come esempio dei contenuti tipici di una trasmissione
quotidianamente seguita da molti e prodotta e diffusa dalla radio della
Confindustria (il maggiore organismo collettivo italiano, rappresentante degli
interessi economici degli imprenditori!): allora, forse, il termine gaddiano di
imbagascimento sconfina dall’ambito
lessicale per trasferirsi a quello concettuale, starei per dire culturale e
morale; e trascina con sé fette generose di “pubblica opinione”.
A
questa resa strisciante (in tutti i sensi) della borghesia (intesa come in nota) non è estranea, ovviamente, la
politica, che ne è anzi spesso la protagonista incosciente: basti pensare – è il
caso, per me, più clamoroso e paradossale – al tipo di “propaganda” messa in
campo da Renzi per proporre la “sua” stessa riforma costituzionale, in nome di
un’antipolitica a presa rapida, attinta ad ampie mani dall’altrui “cultura” per
auto-distruggere la (presunta) propria; o all’ansia di nuove esibizioni via streaming che pervade qualche ex-leader appannato.
El sueño de la razón produce monstruos, dipingeva Goya. E
non a caso questa “massima” è tornata di moda per descrivere l’alto rischio di offuscamento mentale
(Ferrara, su il Foglio dell’11 marzo)
che caratterizza i nostri tempi. Ma il problema non mi pare solo di sonno della
ragione; c’è anche una vena immorale, un’irresistita voglia di resa, di
mediocrità valoriale, di omogeneità ribassista, di malintesa democrazia del
pensiero.
Francamente
non vedo maturata l’aspettativa di cui (6 anni fa) parlavano De Rita e Galdo: per uscire dalla palude e dall’immobilismo,
abbiamo bisogno di nuovo ardore, di qualcosa che brucia dentro di noi; non
brucia nulla dentro di noi; se non l’ansia di quello che sobbolle nella palude.
E
nella frustrazione del non poter fare di più, mi torna in mente, come unica
chiave di solitario rispetto di sé, la conclusione dello storico discorso di
Vittorio Emanuele Orlando all’indomani della ritirata del Piave, giusto
cent’anni fa: Il senso dell’onore e la
ragione dell’utilità, concordemente, solennemente ci rivolgono dunque un
ammonimento solo, ci additano una sola via di salvezza: resistere! resistere!
resistere! Resistere, per quanto impotente sia la resistenza. Aspettando il
nuovo ardore.
Roma,
24 marzo 2017
(*) qui
intesa non nel senso ottocentesco di classe sociale che controlla i
mezzi di produzione ma nel senso contemporaneo di élite depositaria della responsabilità collettiva di guida e
indirizzo del paese, in quanto sua spina dorsale e classe dirigente.
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