Possibile?
(di Felice Celato)
Confesso
che sono rimasto molto turbato dai dati emersi da una ricerca di Community Media Research pubblicati
qualche giorno fa da La Stampa (non
sono riuscito a trovare il testo originale della ricerca; perciò faccio credito
dei numeri al giornalista).
Dunque
pare che, posto di fronte ad una serie di quesiti su come sia meglio agire per
uscire dalla crisi in cui versa il nostro paese, il campione degli Italiani
consultati abbia espresso in larga prevalenza orientamenti “statalisti”, di
vario tipo ma certamente non “liberisti”. Apparentemente gli Italiani –
soprattutto i più giovani (fascia 25-34 anni) – si sentono più “protetti” dallo
stato e meno propensi a far credito ad una libera competizione che, anzi,
ritengono foriera di “maggiori disuguaglianze”.
Come
ogni sondaggio del genere, anche questo va letto guardando alla luna e non al
dito che la indica; ma non c’è dubbio – dai dati riferiti da La Stampa – che l’ambiente Italiano
sembri permeato di quella statolatria
che, qui, più volte abbiamo ritenuto (diciamo meglio: ho ritenuto) come il vero
cancro della nostra società; forse la sua vera palla al piede, diventata ora,
da pericolosa zavorra ai nostri passi, vero e proprio habitus mentale, sorprendentemente dei giovani più degli anziani (over 65); meno sorprendentemente, del
Centro-Sud più che del Nord e degli occupati più dei disoccupati o delle
casalinghe.
Eppure
(qui attingo dal 29° Rapporto Italia
dell’Eurispes) il 72% degli Italiani danno un giudizio pessimo o mediocre della qualità dei servizi pubblici erogati dalle
Amministrazioni centrali dello Stato (il 62%, invece, di quelli erogati da
Amministrazioni Locali); e una larga maggioranza degli Italiani (fra il 50 e il
60%) ritiene migliorata o almeno invariata la qualità dei servizi erogati da
aziende passate dal pubblico al privato [NB: questo secondo sondaggio è, a mio
avviso, viziato da un errata giustapposizione di fattispecie di privatizzazione
assai diverse per natura].
Allora,
che cosa supporta questa apparentemente ostinata statolatria degli Italiani?
Difficile
dirlo: almeno per me, questo male (anzi, questa sindrome) non ha una diagnosi
certa. Posso tentare una (certamente abborracciata) serie di ipotesi.
La
storia? In fondo lo Stato democratico (e quindi del popolo) è per gli Italiani
una “scoperta” recente, la loro dimensione storica è stata, per secoli,
localistica, comunale e, permanentemente, familistica o consortile o
corporativa; comunque di sudditi. Una volta che l’hanno conseguito – lo stato
democratico – ne individuano sopra tutte le funzioni restitutorie, perché, in fondo,
le tasse che hanno (talora regolarmente) pagato non sono state che un indebito
borseggio (ricordate Berlusconi e le sue “mani
in tasca ai cittadini”?). E perciò dallo stato “legittimamente” si aspettano almeno quell’assistenza che è loro “dovuta” perché hanno accettato di andare a votare.
La
cultura? Gli Italiani, si sa, non sono molto istruiti (solo il 13 % dei
cittadini con più di 15 anni ha fatto studi universitari; se poi si aggiungono
i diplomati di scuola secondaria, non si arriva al 50%, dati Censis); conoscono
poco il mondo; non amano il confronto e spesso anzi
lo vivono rifugiandosi nei pregiudizi sugli “altri” e sulle “loro” intenzioni;
non amano fare i conti con la realtà (ricordate “il salario variabile indipendente”?), anzi, non amano proprio fare
di conto. Dopo anni di sinistra propaganda, si sono convinti che chi fa i conti
lo fa solo per i propri torna-conti (
quante volte sentite “condannare” un interesse economico proprio perché
interesse, quasi come se un'economia possa funzionare senza che alcuno abbia interesse ad alcunchè ) e che solo lo stato può porre freno a questi torna-contisti; e che i politici, in fondo, da questi li devono
“proteggere”.
La
globalizzazione? Certamente il mondo occidentale (non solo l’Italia) si trova a
vivere una fase di passaggio assai delicata: ha goduto dei mercati aperti ma
ora comincia a comprenderne tutti gli effetti (non solo i tanti positivi, ma
anche quelli redistributivi, per esempio). E dappertutto sono in atto pulsioni
“sovraniste” che ruotano tutte attorno ad una forte percezione dello stato, dei
confini, dei caratteri locali e delle necessarie “protezioni” che tutto ciò
offre (o meglio: si suppone possa offrire). Anzi, per certi aspetti si finisce
per individuare (a torto o a ragione) nella “competizione” proprio il sostrato “ideologico” della
globalizzazione.
Mi
fermo qui, in questa preoccupata sequela di ipotesi disordinate; come sanno i
miei poveri lettori, altre volte mi è capitato (non so quanto fondatamente) di
estrapolare concetti propri della psichiatria nel campo sociologico (la storia
di queste –arbitrarie? – estrapolazioni l’ho raccontata in un post del 20 marzo 2015, Stupi-diario socio-psichiatrico) . Ma ho
raggiunto (e forse superato) il limite delle 750 parole; forse torneremo a parlarne, perché una
sindrome adatta all’analogia mi pare di averla individuata.
Roma 4 marzo 2017
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