Fatica e rumore
(di
Felice Celato)
Proprio
ieri, in una delle solite accese discussioni fra amici (stavolta via mail, mezzo da me preferito per le discussioni
che coinvolgono le mie emozioni), mi era capitato di usare la salita su un
monte come metafora della fatica che costa la verità.
E
dunque oggi, festa cattolica della Trasfigurazione di Nostro Signore Gesù
Cristo, la metafora mi è tornata in mente leggendo il Vangelo di Matteo (Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni
suo fratello e li condusse in disparte su un alto monte. Mt. 17,
1-13). Il monte, scriveva Benedetto XVI, è sempre il luogo della particolare vicinanza a Dio: il Sinai, l’Oreb, il
Moria nell’Antico Testamento; il monte della tentazione, il monte delle Beatitudini,
il monte dell’angoscia, il monte della Trasfigurazione, il monte della Croce e
il monte dell’Ascensione nel Nuovo Testamento. Si direbbe che il monte è il luogo d’elezione della
Verità, perché comporta (anche) la fatica della salita che allontana dalla pianura del quotidiano rumore; una
Verità che esige il disparte perché la
Sua voce non è nel vento che spezza le
rocce, nel terremoto o nel fulmine ma nel sussurro di una brezza leggera cui occorre tendere l’orecchio
attento (1 Re, 19, 11 e sg.). Non è un caso che Mosè, scendendo dal Sinai dove
ha ricevuto le due Tavole della
testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio (Es. 31, 18),
sente da lontano il rumore dei suoi uomini, restati sul piano a farsi
fabbricare un Dio di metallo che cammini alla loro testa.
E
anche la verità (quella, provvisoria, con la v minuscola, che magari si
apprende sui libri o dalla parola dei nostri maestri) comporta fatica e disparte, come sanno tutti quelli che
hanno speso una parte della loro vita sui libri, magari fermandosi di tanto in
tanto per ripetere a sé stessi ciò che
hanno capito, per esser certi di averne fatto loro patrimonio.
Non
meraviglia perciò che la fatica della verità non sia fra le più popolari fra gli
uomini che già la fatica la conoscono in abbondanza per procurarsi di che
vivere. Ovviamente si vive meglio senza fatica, specie se la pianura toglie ogni nostalgia per la verità fornendo in continuazione l’illusione di comodi suoi succedanei, semplici e alla portata di tutti, propalati quotidianamente da media e politicanti. Abituati ormai ai
passi più leggeri della pianura, dove
magari si può anche (credere di) andare più veloci, non amiamo più procedere lentamente
sollevando con fatica il peso del nostro corpo su un piede per volta (per dirla
con Dante: sì che ‘l pié fermo sempre era
‘l più basso). E dunque, amaramente, ben venga chi semplifica, banalizza,
avvicina alla pianura ciò che
potremmo conseguire solo affaticandoci sul monte;
ben venga chi confeziona spiegazioni semplici per problemi complessi, la cui
soluzione altrimenti comporterebbe l’erta dell’alto monte; ben venga chi ci parla
col linguaggio rumoroso della pianura
perché, sul monte, occorre persino tendere
l’orecchio facendo silenzio; chi suscita applausi piuttosto che l’inquietante
silenzio del pensare.
Questa
mi pare la cifra dei nostri tempi; e lo dico senza alcuna iattanza o supponenza
intellettuale: è l’esperienza che fa – credo – ciascuno di noi (me compreso,
ovviamente, anche se ora ho più tempo per studiare ciò che mi interessa), magari più
per necessità che per scelta: sono così tante le cose che ci passano davanti
che non possiamo che dividerle fra quelle di cui ci basta il rumore che fanno e
quelle per le quali ci sembra che valga la pena di affrontare la fatica
dell’erta.
Ma
proprio questa forzata condizione del nostro vivere in mezzo a tanti rumori
deve allarmare il nostro giudizio, metterci in tensione continua con la verità,
farci dubitare sistematicamente del succedaneo che ci viene propinato: se la
fonte è di pianura è più probabile
che l’acqua sia inquinata dal lungo percorso, se la fonte è sul monte è certamente più pura.
Roma,12
marzo 2017 (seconda domenica di Quaresima)
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