martedì 21 marzo 2017

Babele / 2

Aggiornamento sul tema
(di Felice Celato)
I lettori più pazienti di questo blog ricorderanno che, giusto un mese fa, con due post successivi (Babele del 16 febbraio e Spigolature del week end del 20 febbraio) ci siamo intrattenuti sul tema delle parole (i significanti) e del loro progressivo scostamento dai significati. Tema, per la verità, per me centrale nell’ angosciata messa a fuoco – che, ahimè, mi trovo a fare continuamente – dei sintomi e delle ragioni della nostra crisi antropologica.
Un’interessante presentazione (di un paio di giorni fa) del Censis mi ha fatto ritornare sull’argomento con una (come al solito) lucida e visionaria nota di Giuseppe De Rita (L’imbagascimento del lessico collettivo) nella quale l’impoverimento lessicale e semantico di quotidiana constatazione sui media (e nel parlare corrente) viene riportato, come è giusto, alla sua radice sociologica (chi vuole può seguire dal sito del Censis lo streaming del dibattito sul tema).
Ne riporto integralmente e senza commento alcuni passi che, a mio giudizio, ben arricchiscono la prospettiva del ragionamento che andiamo facendo da qualche tempo (le sottolineature, invece, sono mie):
Si potrà dire che è esagerato addebitare alla categoria di chi fa opinione e/o cerca consenso la responsabilità del degrado del nostro lessico. Ma si dovrà convenire che così è, solo che si controlli dove più cresce la quotidiana deviazione del nostro lessico collettivo, cioè nei mezzi (di comunicazione di massa e social media) in cui si fa opinione e consenso. Ma la monodirezionale strumentalizzazione del linguaggio da parte di tali soggetti nasconde anche, a specchio, una responsabilità del sistema sociale. Quando come in questo periodo, la politica tende a rassomigliare alla gente, non a guidarla, si intravvede e si capisce la sua chiara tensione a recepire e far proprio il linguaggio della gente comune (alcuni dicono della indistinta moltitudine) cui si chiede attenzione, opinione e consenso.
Se si ipotizza che il drive della cultura e della lingua sia l’evoluzione sociale, torna allora qui utile quella componente della cultura Censis che ha con forza rilevato che il secondo dopoguerra, pur iniziato sotto l’influsso forse delle parole e delle relative ambizioni elitarie (fino all’estremo tentativo del ’68 e dintorni), ha poi visto esplodere quel processo di “cetomedizzazione” che ha di fatto portato a un corpo sociale indistinto, totalmente indifferente verso i valori guida e di spinta in avanti delle componenti acculturate del sistema. Lingua, letteratura, cultura d’elite non servivano più: la “cetomedizzazione” (una dimensione indistinta anche linguisticamente) non era arginabile e il tutto apriva a una logica complessivamente regressiva. La società non vuole e non può più crescere, vuole solo essere così com’è. E lascia la sua lingua logorarsi nella sua diminuita funzione; nella propensione ad esasperare e patetizzare i toni per coprire il vuoto crescente; a riempirsi di spezzoni di frasi, di macerie linguistiche più adatte all’invettiva che al dialogo e alla sintesi di prospettiva.
Nel corpo sociale, omnicomprensivo ed indistinto, c’è un abissale vuoto linguistico, in cui ognuno può scorrazzare a proprio piacimento, quasi senza regole collettive e responsabilità individuali….con quella carica di soggettività e di soggettivismo etico che è una componente essenziale della nostra attuale cultura collettiva….con una base comune di libertà con cui i singoli mettono in circolazione i propri messaggi, spesso non regolamenti o di bassa qualità etica….con una fortissima componente di rancore.
Come è suo proprio, De Rita non è mai un analista disperato; ed ecco allora le “ricette”:
Bisogna reagire al livellamento ed evitare di assistere impotenti ai…processi indicati. Occorre quindi impegnarsi a:
  • scuotere la pigrizia e l’inerzia strutturale del nostro linguaggio comune;
  • “risemantizzare” la nostra lingua arricchendola di nuove parole, ma ancor più di nuovi echeggiamenti e significati….anche attingendo a quella pluralità di linguaggi che l’imborghesimento cetomedista ha messo in ombra.

E’ un sogno ambizioso e forse impossibile, ma è necessario tentarlo. Per la semplice ragione che è verosimilmente ancora vero che è la lingua che “fa” la nazione: se la lingua è povera, allora anche la società rischia di essere povera.
Con meno acume, con ancora minore fantasia lessicale, con assai meno dottrina sociologica e sicuramente minor ottimismo mi piace tornare alla abusata citazione Morettiana di qualche post fa: chi parla male, pensa male e vive male. Vero per gli individui, vero per le società.
Roma 21 marzo 2017


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