Patologie della pubblica opinione
(di Felice Celato)
Un amico in vena di rimbrotti mi ha fatto un’affettuosa
telefonata di auguri per il nuovo anno, nella quale ha però lungamente commentato
alcune “fisime” di questo blog. Devo
dire che i rimbrotti, specie quando sono affettuosi, sono uno dei fini di
queste nostre conversazioni asincrone perché aiutano a “ripulire” le nostre
convinzioni (del che abbiamo tutti sempre bisogno). E perciò ne sono
soddisfatto.
In particolare l’amico si è voluto cimentare in un’intemerata
sul concetto di loto politico
(termine da me forse usato dandone sempre per scontata l’allusione omerica): “che cos’è, dunque, ‘sto tuo loto politico?”,
dice più o meno il mio amico. “Un altro
modo – e ce n’è già tanti – per delegittimare la politica? Per gettare sospetti
su chi la politica la fa con coscienza? Per fare il gioco dell’antipolitica?”.
Bene. Sono lieto di sciogliere l’equivoco che – se
c’è stato – è colpa mia. Già mi assolverebbero, peraltro, le ampie ed entusiaste citazioni
che ho fatto – anche sul blog – del
magnifico libretto di Capaldo che si
intitola, non a caso, Pensieri
sull’Italia. L’importanza della politica. Ma un chiarimento mi preme farlo
anche con qualche parola mia (magari, come osserveranno i più assidui lettori, ripetendomi un po’).
Per me il loto
della politica (il fiore di loto – come è noto – era l’erba che sconvolgeva
le menti dei compagni dell’Ulisse dell’Odissea, suscitando la perdita di
memoria della patria e del “senso” del viaggio) è l’ordinata e cosciente (o incosciente?) somministrazione di
“idee”…autoadesive, che si “attaccano” cioè alle teste, facilmente, senza
nemmeno l’aggiunta di colla, determinandone l’incapacità critica e la
leggerezza del giudizio. Si tratta di una degenerazione della politica,
potenziata dalla fragilità culturale del nostro paese e – un po’ ovunque –
dalla straordinaria pervasività dei media
che, come dice Simei, il luciferino personaggio del romanzo di Umberto Eco, insegnano alla gente come deve pensare
(*).
E così, per me, è loto politico far credere (governando o facendo opposizione) che lo
Stato possa stabilmente creare la ricchezza e il benessere dei cittadini; e che
se non accade è solo per incapacità (salvo il peggio) di chi governa; che
chiudersi dentro le nostre frontiere (fisiche e culturali) ci proteggerebbe dai
“pericoli” del mondo; che la questione del debito pubblico sia una bubbola da ragionieri o, tutt’al più, da finanzieri filo-tedeschi; che sia possibile
finanziare a debito qualsiasi spesa nella convinzione che essa generi
automaticamente ricchezza durevole; che sia possibile governare senza
conoscerne le tecniche necessarie, bastando proclamarsi onesti e “trasparenti”;
che esistano soluzioni semplici per problemi complessi (tipo: l’Euro ci pesa?
Facciamo due monete, una per l’interno e una per l’estero); che sia possibile a
tutti giudicare assennatamente sempre e su tutto; che la scienza possa essere
democratica (rubo la felice espressione al prof. Burioni), per cui il like di molti conta più dello studio di
pochi; che sia normale pensare e parlare male di tutto e di tutti; che la
decostruzione di ogni intermediazione politica o istituzionale (uso qui termini
Censis) sia foriera di maggiore democrazia; che la diluizione del potere di
decidere (Galli Della Loggia, Corriere
della sera del 7 gennaio) sia una garanzia di controllo democratico; che –
insomma – la politica, quella vera,
quella cui pensava il mio amico, sia ormai dissolta nel liquido della nostra
società (tanto per fare una citazione di Bauman nel giorno della sua morte).
Il tragico di questa somministrazione di siero della non-verità (ritorno su
questo termine forse più chiaro della metafora del fiore di loto) è che, una
volta inoculato, trasforma la pubblica opinione da risorsa di saggezza e di
implicita verifica dell’efficacia delle politiche (come sarebbe giusto
pensarla) in una pericolosa forza dalle dinamiche in continua
composizione-ricomposizione, o, per dirla con Canetti (Massa e potere, Adelphi 2010), in
massa aizzata...in vista di una mèta (qualsiasi, purché sia) velocemente raggiungibile o, peggio, in muta…di uomini eccitati, il cui desiderio
più intenso è essere di più.
Forse è questa “patologia” della pubblica opinione
che sfibra la nostra società (come dicevo il fenomeno, in buona misura, non è però solo nostro) e ci rende una società
dissociativa, tormentata da reciproci
processi di rancorosa delegittimazione (ancora Censis, 2016). E non credo che la politica (così
come, oggi, rumorosamente, la conosciamo) sia esente da responsabilità.
Roma 10
gennaio 2017
(*) da Numero
zero ( Bompiani 2015); obbietta un altro personaggio: Ma il giornali seguono le tendenze della gente o le creano?
Risponde Simei: Tutte e due le cose. La
gente all’inizio non sa che tendenze ha, poi noi gliele diciamo e loro si
accorgono che le avevano.
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