Che cosa sa fare l’Italia?
(di Felice Celato)
Eccoci, dunque, tornare seri con una
lettura, appunto, seria: di Anna Giunta e Salvatore Rossi Che cosa sa fare l’Italia (Laterza 2017), un libro scritto da due
studiosi, ancora una volta, seri (il secondo è anche il Direttore Generale
della Banca d’Italia), nel quale, esposte con esemplare chiarezza, si ritrovano analisi
tecniche rigorose su quello che è lo stato del
motore primo della ricchezza nazionale (le imprese) nonché le proposte conseguenti, per un “tagliando” ormai divenuto di
vitale importanza per la sopravvivenza funzionale del motore stesso.
Certamente le analisi sono troppo
specialistiche per parlarne qui, se non per accenni super-sintetici; ma, come
dicevo, il volume si raccomanda per la sua chiarezza e quindi può essere letto
agevolmente anche da non specialisti che abbiano interesse alla materia; le
proposte, invece, mi sono parse interessanti da condividere e magari discutere
fra noi, come liberamente si può discutere di proposte in fondo politiche (nel
senso alto della parola) dopo (e solo dopo) che si sia capito bene qual è la
realtà sottostante (Conoscere per
deliberare, come diceva inutilmente ai politici Einaudi qualche tempo fa e
come, ne sono certo, ripeterebbe a gran voce anche oggi, forse parimenti inascoltato).
Prima un cenno, per macro-punti, ai
risultati delle analisi: “agganciati” (in termini di tassi di produttività e di
crescita) i paesi più avanzati fra il 1948 e il 1973, a partire dagli anni ’90
l’Italia ha cominciato a declinare: il
mondo cambiava (ICT e globalizzazione) e
l’Italia non se ne accorgeva; le caratteristiche delle sue imprese (familismo, bassa produttività e scarsa
innovazione) finivano per zavorrare la produzione della ricchezza, via via
staccando la nostra economia dal resto del contesto cui pure il paese riteneva
di appartenere. Mentre noi ci compiacevamo del volto dell’Italia…bello, sorridente (anche se già allora un po’ fané, un po’ flaccido), le catene globali
del valore (espressione produttiva della globalizzazione) vedevano via via
l’Italia posizionarsi, in prevalenza, nei segmenti centrali (tipicamente
manifatturieri, dove la competizione coi paesi a più basso costo del lavoro si
fa più aspra e dove si produce minore valore), senza riuscire a presidiare
quelle aree di testa o di coda (tipicamente, ricerca e sviluppo, marketing, diffusione del brand, etc., dove si produce la maggiore
ricchezza): aumentano così le imprese perdenti e si rarefanno quelle vincenti (le imprese vincenti sono diventate tali
nonostante il paese, le perdenti a causa di esso).
Dunque, si domandano i due autori, che fare in un contesto in cui l’Europa
non pare più la chiave risolutiva della nostra rinascita? Ecco, a grandissime
linee, le azioni intravviste: far crescere la dimensione media delle imprese,
rigenerando le condizioni abilitanti che forse si sono perse nel tempo: un
ordinamento giuridico non ostile all’impresa e alle condizioni della sua
efficienza, che venga percepito tale anche all’estero (se le norme sono farraginose ed instabili, i cittadini e le imprese non
possono prevedere le conseguenze delle loro azioni e le loro iniziative
economiche sono frenate; si diffondono la corruzione e l’economia sommersa, a vantaggio
dei disonesti); un’ amministrazione pubblica che valga a modificare la percezione negativa che gli
imprenditori italiani e stranieri hanno del funzionamento dell’apparato
amministrativo; rivedere l’offerta formativa delle nostre scuole (secondarie
ed universitarie) per allinearla alla qualità dei sistemi “concorrenti” e alla domanda
di competenze delle imprese, per generare capitale
umano idoneo per un’economia moderna ed avanzata.
Come si vede da questa carrellata
necessariamente grossolana, non siamo lontani dalle conclusioni che ci siamo
azzardati ad affacciare qualche volta su queste colonne, come pure dalle
indicazioni che sembravano emergere da qualche altra lettura via via
“consigliata” (per tutti: P. Capaldo, Pensieri
sull’Italia, segnalato in Letture
del 12 5 16): sgonfiare l’ipertrofia
fiscale e normativa, raddrizzare i labirinti procedurali di cui è disseminato
il cammino di chi intraprende, ci farebbe scalare tante posizioni nelle
classifiche internazionali del “fare impresa”; avvierebbe un circuito di attese
favorevoli che poi si autorealizzano; libererebbe le energie di cui il nostro
paese resta ricco, concludono gli autori del libro.
Questo è un anno in cui si hanno
molte ragioni per essere inquieti; forse la scena del mondo passa secondo vie
che non avevamo immaginato. Potrebbe dunque apparire ozioso volgersi indietro;
ma, secondo me, non è ancora del tutto inutile domandarsi come ci siamo
condotti fin qui.
Roma 23 gennaio 2017
P.S.: tralascio, qui, di dare un cenno su uno dei più appassionati e appassionanti capitoli del libro: quello dedicato al sistema bancario Italiano ed alle sue perduranti vicende. Si tratta però di un capitolo che, magari i più vicini al tema, sicuramente apprezzeranno.
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