domenica 1 gennaio 2017

Così ci insegna la Cina

Eccezionalmente, in 800 parole!
(di Felice Celato)
Anche se il sangue ha colorato l’anno già mentre arrivava, io voglio cominciarlo con una storia incredibilmente bella e significativa. Prima di raccontarvela, però, voglio dirvi brevemente dove l’ho trovata. Sempre alla ricerca di dati per formarmi  le mie opinioni al riparo dal pensiero stagnante del nostro inverno culturale, mi sono imbattuto – su segnalazione di un gruppo di lettura che ogni tanto frequento virtualmente – in un sito che vi consiglio vivamente di visitare (Our world in data, curato da Max Roser, ricercatore della Oxford Martin School, dell’Università di Oxford) e in un libro, uscito da poco (per ora esiste solo un’edizione in inglese, disponibile in e-book), di Johan Norberg (uno storico dell’economia, di nazionalità Svedese, Senior Fellow del Cato Insitute di Washington) intitolato: Progress: ten reasons to look forward to the future (One world Pubblications, 2016): entrambe le “fonti” cui ho attinto svolgono ampie indagini storico-economiche, ricchissime di dati,  sull’andamento del mondo nell’ultimo secolo e forniscono una visione abbastanza confortante dei mega-trend socio-economici del nostro ambiente umano. (N.B. per i lettori abituali di questo blog: il fatto che il mondo vada meglio di come in molti credono di percepirlo, non confligge col fatto che, forse, il nostro Paese vada peggio di come vogliono percepirlo gli inguaribili ottimisti; anzi, per molti aspetti, rafforza le preoccupazioni che suscita, almeno in me, il nostro letargo da stanchi mangiatori del loto della nostra politica).
Bene: nel libro di Rosberg è narrata la storia della straordinaria e rapida evoluzione dell’agricoltura in Cina.  La leadership cinese dei nostri giorni è giustamente fiera – dice l’autore – della sua odierna agricoltura, dopo che la Cina era stata a lungo forse lo stato che ha conosciuto le peggiori carestie della storia del mondo (almeno per endemica ampiezza). Ma la sua vicenda nel tempo ha una radice che vale la pena di sentirsi narrare perché in qualche modo, secondo me, insegna più cose di tanti ragionamenti sulla libertà, sulla libertà di intrapresa, sull’innovazione bottom-up, sul rapporto fra lo stato e i cittadini, sui mali della statolatria, etc.etc.etc..
Dunque – racconta Rosberg – in un villaggio dello Xiaogang, nella provincia di Anhui, dominava la disperazione per le condizioni di vera e propria fame che la gestione statalizzata dell’agricoltura premurosamente assicurava alle 18 famiglie del villaggio: la gente era costretta a nutrirsi di foglie di pioppo bollite e a macinare pezzi di corteccia per farne farina. Sicché, nel 1978, la piccola comunità locale si risolse a dividersi – ovviamente di nascosto delle autorità statali che vietavano (lì , davvero, severamente) ogni iniziativa privata – i terreni del comune affinché ciascuna famiglia vi conducesse in autonomia l’attività agricola che voleva, lavorandoci quanto e quando voleva ed anche investendoci quanto poteva per far crescere la produzione; unici limiti: la giurata segretezza dell’iniziativa e la necessità di comunque devolvere al governo quanto esso si aspettava, in prodotti, per l’uso del terreno dello stato, perché non si “accorgesse” di quanto gli individui andavano preparandosi. Inoltre tutte le famiglie assumevano l’impegno di sostentare i bambini delle famiglie alle quali fossero state irrogate le temute sanzioni statali, nel caso in cui “l’inaccettabile” iniziativa privata fosse venuta alla luce.
Ebbene: già un anno dopo, la produzione di grano fu sei volte quella dell’anno precedente e nel 1982 – essendo inevitabilmente venuta alla luce l’impresa delle 18 famiglie – il partito decise di estendere l’esperimento ad altri villaggi, sicché nel 1984 già il modello era adottato in tutta la Cina. Morale: oggi, una quarantina d’anni dopo l’iniziativa segreta delle 18 famiglie dello Xiaogang, la Cina è (dato World Factbook) un leader mondiale per produzione di cereali, cotone, semi di colza, tè, carne, uova, prodotti acquatici e ortaggi; e ne è anche un forte esportatore.
Ecco, questa storia ci accompagni nel 2017 per  ricordarci sempre che lo stato è come il sabato di evangelica memoria: è fatto per l’uomo e non l’uomo per lo stato; oppure, è come il sale che, in piccole dosi, dà sapore, in grandi, disgusta. E che – come diceva Thomas Jefferson, 3° Presidente degli Stati Uniti – se fosse Washington a dirci quando seminare e quando mietere, ben presto ci mancherebbe il pane (*). E che – come scriveva Alfred Marshall, inglese, uno dei padri del liberalismo moderno – lo stato può stampare un’ottima edizione delle opere di Shakespeare ma non potrebbe farle scrivere(*). E che - come scriveva Milton Friedman, statunitense, premio Nobel per l’economia nel 1976 – se facessimo gestire il deserto del Sahara al governo federale, in capo a cinque anni avremmo scarsità di sabbia(*). E che, infine, come scriveva Walter Lippmann, politologo americano, il potere dello stato come tale, in sé e per sé, non produce nulla, non può che distribuire quello che è stato già prodotto(*).
Roma, 1° gennaio 2017

(*) Tutte le citazioni sono tratte da Il liberista tascabile (Istituto Bruno Leoni ed. 2014), manualetto dedicato Ai socialisti di tutti i partiti ma (da me) consigliato a tutti.





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